21 maggio 2014

Carmine Crocco, di Ettore Cinnella



Per capire come Cinnella valuti il brigantaggio postunitario basta leggere questa sua affermazione: «Il grande brigantaggio, specie nella sua fase più cupa, non essendo rischiarato da alcuna luce né politica né sociale, era sorretto solo dall’istinto di conservazione dei suoi membri e dalla pulsione distruttiva nei riguardi del mondo esterno». In sostanza quindi i briganti erano delinquenti comuni che pensavano solo a se stessi.
     Avendo questa visione mi sembra strano che il Cinnella abbia voluto scrivere un libro sul capobrigante più significativo e importante di quel periodo: Carmine Crocco. Sembra giustificare questa sua scelta quando afferma che «le vicende biografiche di Crocco furono talmente straordinarie e rocambolesche, che non necessitano di ulteriori fronzoli». Obiettivo del suo lavoro quindi sembra essere la volontà di sfrondare la biografia di Crocco dalla leggenda e dal mito che la circonderebbero. In realtà però a me sembra che voglia sfrondare il brigantaggio da ogni valore sociale e politico, in controtendenza con quasi tutti i più recenti studi.
     Per Cinnella sono luoghi comuni da eliminare le posizioni sul brigantaggio tenute da Franco Molfese, da Renzo Del Carria, da Eric J. Hobsbawm. Molfese considerava il brigantaggio una guerra di classe ed una embrionale rivoluzione contadina; riteneva Crocco un autentico comandante partigiano. Del Carria pensava che il brigantaggio fosse stata la prima rivolta contadina contro lo Stato borghese italiano; Crocco era un grande dirigente rivoluzionario contadino. Hobsbawm annovera Crocco tra i banditi sociali che «cessano di essere banditi e diventano militanti della rivoluzione». Cinnella critica queste posizioni e quella degli scrittori di cose locali che ad esse si sono ispirate, portando come esempio Antonio Ruggieri, Antonio De Leo, Tommaso Pedio. Noi siamo più vicini a queste posizioni che non a quelle di Cinnella.
     Carmine Crocco nacque a Rionero in Vulture il 5 giugno 1830 da Francesco e Maria Gerarda Santomauro. Il soprannome Donatelli, spesso scambiato con il suo cognome autentico (Crocco), gli venne dal nonno paterno Donato. Imparò a leggere e scrivere grazie all’insegnamento domestico impartito dallo zio Martino. Girò per molti paesi specialmente della Puglia. All’inizio del 1849 divenne soldato borbonico prestando servizio a Napoli, in Sicilia e a Gaeta. Dopo quattro anni disertò e si diede alla macchia nelle fitte boscaglie intorno a Rionero. Dopo tre anni incappò nelle maglie della giustizia e fu condannato a 19 anni di carcere, da dove scappò nel dicembre 1859. Militò poi, con alcuni suoi compagni briganti, nell’esercito garibaldino. Ma non essendo state mantenute le promesse di condonargli alcuni reati commessi, ritornò al “mestiere” di brigante. Riuscì a formare una molto consistente banda, organizzata militarmente, con la quale assaltò (e riconquistò ai Borbone) Ripacandida, Venosa, Barile, Rapolla, Avigliano, Grassano, Melfi, Monteverde, Carbonara, Calitri, Sant’Andrea, Conza.
     Nell’estate del 1861, scrive Cinnella, divampò una ferocissima guerra civile tra avversari e sostenitori del nuovo regime sabaudo. Alla crudeltà dei briganti l’esercito piemontese rispondeva con esecuzioni sommarie. E l’autore sembra parteggiare per l’esercito che reagirebbe a un “nemico subdolo e spietato”. Ma forse si contraddice un po’ quando afferma che non trova nessuna giustificazione il ricorso alle intimidazioni e alle rappresaglie nei confronti della popolazione civile, “che in taluni casi assunsero un carattere di apocalittico terrore”. E arriva a definire infame la spedizione punitiva contro i due grossi borghi del Matese, Pontelandolfo e Casalduni, bruciati e rasi al suolo dall’esercito, perché accusati di complicità con i briganti che avevano ucciso una quarantina di soldati. La distruzione dei due paesi, scrive ancora Cinnella, ebbe il solo effetto di rinfocolare l’odio delle popolazioni meridionali verso i nuovi funzionari, visti come conquistatori, e di accrescere il rimpianto della deposta monarchia borbonica.
     Nel libro si parla anche del sergente Pasquale Romano, capobrigante nato a Gioia del Colle in Terra di Bari; del legittimista spagnolo José Borges, mandato dal Comitato borbonico a capeggiare la rivolta ma che troverà la morte a Tagliacozzo per mano piemontese; del capobrigante Luigi Alonzi detto Chiavone fatto poi uccidere dai legittimisti stranieri; di Giuseppe Caruso che prima collaborò con Crocco e poi lo tradì consegnandolo ai piemontesi.
     Crocco, nel processo celebratosi a Potenza nel 1872, fu condannato a morte con sentenza già scritta prima di essere emanata. Due anni dopo, la pena capitale fu commutata nei lavori forzati a vita. In carcere, nelle isole di Santo Stefano prima e di Portoferraio poi, dove rimase per oltre trenta anni (morì il 18 giugno 1905 all’età di 75 anni), Crocco scrisse la sua autobiografia, pubblicata nel 1903 dal capitano Eugenio Massa. Cinnella avanza tre possibili ipotesi sulla sua stesura, tenuto conto che Crocco fosse appena capace di leggere e scrivere. La prima è che Massa abbia avuto in mano il lungo brogliaccio di Crocco e abbia deciso di conferirgli una dignità letteraria, emendandolo o magari riscrivendolo da cima a fondo. La seconda ipotesi, “sebbene appaia meno probabile”, è che Massa abbia preso appunti ascoltando Crocco, provvedendo poi a rielaborare e risistemare il materiale raccolto. La terza ipotesi è che qualchedun altro abbia ripulito il manoscritto originale di Crocco, consegnandolo poi al capitano Massa in tale nuova forma. Comunque sia, Cinnella scrive che «se la forma letteraria è frutto di penna esperta e colta, la sostanza del libro rispecchia l’universo mentale del brigante e la visione che questi intendeva offrire della sua vita e delle sue gesta».
     Più vicino alle possibilità di scrittura di Crocco sembra essere un lungo frammento autobiografico pubblicato nel 1907 da Francesco Cascella, in un libro dedicato al fenomeno generale del brigantaggio.
     Una terza storia della sua vita Crocco consegnò al lombrosiano professor Pasquale Penta, che nel 1901 pubblicò un saggio sui delinquenti “primitivi” nella rivista di psichiatria da lui diretta, attingendo parecchio da quel «prezioso documento, che poi ho smarrito per colpa non mia» scrive Penta.
     Il libro di Cinnella si inserisce nel filone filopiemontese che considera il brigantaggio un fenomeno meramente delinquenziale. Per noi invece che consideriamo il brigantaggio un fenomeno politico e sociale il libro non aggiunge nulla di nuovo.
Rocco Biondi

Ettore Cinnella, Carmine Crocco. Un brigante nella grande storia, Della Porta Editori, Pisa - Cagliari 2010, pp. 188, € 14,00

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