Potremmo
dividere il libro in due parti, una di ricerca storica negli archivi calabresi,
l’altra di denuncia della mala unità contro il Sud. La prima è esplicitata nel
sottotitolo Platì: un caso emblematico di
“brigantaggio”, dove si parla del brigante Ferdinando Mittiga. La seconda
affronta i temi caldi del meridionalismo: l’invasione del Regno delle Due
Sicilie, la protesta dei briganti, la loro repressione da parte dei piemontesi,
la centocinquantennale politica nordista contro il Sud.
Platì è un paese, collocato ai piedi
dell’Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria, dove nacque ed operò
Ferdinando Mittiga. Il nome di questo brigante già compare durante i moti
liberali del 1847/48, verificatisi sulla costa jonica di Bovalino e Ardore,
quando venne liberato dal carcere. Le insurrezioni di quegli anni fallirono e
la repressione borbonica fu durissima, ma il Mittiga si mise a capo di una
banda per portare avanti la sua lotta per la giustizia sociale e chiudere i
conti con i ricchi “signori”, riscattando la povera gente da abusi e soprusi.
Era un proprietario terriero (per questo motivo il suo nome lo si trova sugli
atti ufficiali preceduto dal prefisso “don”, riservato a persone appartenenti
al ceto elevato), che però aveva scelto di stare dalla parte degli umili e
degli oppressi.
Proprio alla collaborazione di Mittiga
fecero riferimento nel 1861 i comitati borbonici quando decisero di far partire
dalla Calabria l’impresa insurrezionale, affidata al generale spagnolo José
Borges, nel tentativo di riportare sul trono di Napoli i Borbone. Allora la
banda Mittiga contava oltre duecentocinquanta uomini, provenienti da Platì e dai
paesi limitrofi, e lui era imprendibile perché godeva dell’appoggio del popolo
che lo riconosceva come il “suo eroe”.
Merito della Musitano è l’aver reperito
nell’Archivio di Stato di Reggio Calabria e aver trascritto in questo libro
alcuni documenti originali relativi alle vicende della banda Mittiga. Sono 46
pagine dei Processi Penali della Corte d’Assise di Reggio Calabria e due pagine
del Gabinetto di Prefettura della stessa città. La lettura di questi testi
permette di ricostruire con esattezza le vicende che ebbero per protagonisti
Mittiga e la sua banda, dallo sbarco sulle coste calabresi del generale
spagnolo José Borges, all’assalto di Platì, alla uccisione avvenuta il 30
settembre 1861 ad opera dei piemontesi dello stesso Don Ferdinando, cui venne
mozzata la testa e portata in giro per il paese come monito e come trofeo.
Anche parecchi anni dopo la morte, Mittiga incuteva ancora paura ai ricchi
possidenti e si perseguitavano i suoi discendenti.
La seconda parte del libro comincia con un
capitolo che risponde affermativamente alla domanda se l’unità d’Italia sia
stata un’illusione. Il Sud non veniva liberato dalla presenza di un sovrano
straniero, ma con una guerra non dichiarata e nel totale disprezzo del diritto
internazionale veniva “liberato” dal suo sovrano legittimo. In pratica lo Stato
unitario fu un ampliamento del Piemonte sabaudo. Con l’uso delle armi venne
imposta la monarchia centralistica dei Savoia, divenendo una vera conquista. I
contadini meridionali si resero subito conto che per loro nulla sarebbe
cambiato e che la loro “fame di terra” sarebbe rimasta inappagata. E reagirono
con l’unico modo di cui disponevano: la ribellione. E si organizzarono in bande
sempre più numerose, guidate da capi dotati di un forte carisma e sostenute
dalle masse popolari. Nelle bande, accanto ai contadini, confluirono renitenti
alla leva (divenuta obbligatoria) ed ex soldati borbonici (licenziati e mandati
a casa).
In risposta il nuovo Stato inviò nel
Mezzogiorno 120.000 soldati, trasformando la conquista del Sud in una vera e
propria guerra civile, che vedeva contrapposti da una parte l’esercito
piemontese e dall’altra i contadini meridionali. Fu proclamato lo stato d’assedio,
furono istituiti i tribunali speciali, vennero eseguite esecuzioni sommarie
tramite fucilazione, vennero incendiate masserie ed interi paesi. Le bande
contadine meridionali a queste violenze risposero con altre forme di violenza.
Vennero deportati al nord in campi di
concentramento migliaia di meridionali, in massima parte ex soldati
dell’esercito borbonico; fra questi campi tristemente famoso fu quello di
Fenestrelle.
Venne emanata la legge razziale Pica, che
prevedeva non solo l’arresto e la fucilazione dei presunti briganti, ma anche
il fermo dei loro parenti fino al terzo grado e il domicilio coatto per motivi
politici. Questa legge divenne in pratica – scrive la Musitano – una potente
arma per eliminare ogni forma di dissenso e per instaurare un generale clima di
terrore. Vennero di fatto legalizzati i comportamenti repressivi e
antidemocratici già usati dall’esercito nella lotta al brigantaggio.
In questa guerra vinsero i più forti: i
piemontesi; i briganti, i primi veri partigiani della storia d’Italia, vennero
sconfitti e con essi venne sconfitto il Mezzogiorno. Sconfitta che allunga i
suoi effetti negativi fino ai nostri giorni.
I piemontesi teorizzarono la presunta bontà
del loro comportamento con la teoria lombrosiana dell’uomo delinquente. Così
Musitano riassume questa teoria: «I meridionali erano delinquenti nati e
rappresentavano un regresso, una involuzione nel processo involutivo, pertanto
la loro eliminazione rappresentava una forma di tutela della società».
Nel libro viene infine riportata l’opinione
di Francesco Saverio Nitti, nato a Melfi in Basilicata e Presidente del
Consiglio Italiano nel 1919, espressa nella sua opera “Nord e Sud” pubblicata nel 1900.
In essa vengono analizzati i provvedimenti adottato dallo Stato Unitario e le
conseguenze negative che avevano determinato nell’economia meridionale.
L’abolizione delle tariffe doganali causò il quasi totale crollo di tutte le
industrie esistenti nell’ex Regno delle Due Sicilie prima del 1860: l’industria
siderurgica delle Serre calabresi, le industrie metallurgiche e meccaniche del
napoletano, quelle delle vetrerie e della ceramica; le misure protezionistiche
per le importazioni di cereali avvantaggiava l’agricoltura settentrionale e
metteva in crisi quella meridionale.
Il Regno delle Due Sicilie, al momento
dell’Unità, possedeva tra gli Stati preunitari la maggiore ricchezza monetaria
ed aveva il minore debito pubblico; secondo Nitti il Piemonte, per scongiurare
il fallimento, unificò il suo debito con quello napoletano; l’unificazione del
debito provocò uno spostamento di ricchezze dal sud al nord. Nitti dimostra
come, dopo aver spostato i capitali da sud a nord e dopo aver elevato a
vantaggio del nord la pressione fiscale, fu nel nord che si concentrarono
massimamente le spese sostenute dallo Stato con il denaro pubblico; e quel poco
che veniva fatto nel Mezzogiorno, veniva appaltato quasi esclusivamente a ditte
settentrionali.
Lo studio di Nitti sfata molti luoghi
comuni esistenti contro il Sud: è l’Italia settentrionale ad avere più
impiegati pubblici, l’imposta fondiaria era più gravosa al Sud, nel campo
dell’istruzione si è investito in massima parte al nord. Orientamento analogo
anche nel campo dei lavori pubblici, per la costruzione della rete ferroviaria,
le spese per la marina e per l’esercito.
L’opera di Nitti mette in risalto come il
Sud, dopo l’Unità, sia diventato il mercato coloniale interno per i prodotti
del nord. Riletta oggi, risulta di grande attualità.
Nelle conclusioni la Musitano richiama i
concetti espressi più volte da Lino Patruno (anche nella prefazione): non vi
può essere il rilancio dell’Italia tutta se non vi sarà la crescita del
Mezzogiorno, bisogna guardare al Sud come una risorsa e non come un problema.
Qui si ferma l’analisi della Musitano. Ma si
dovrebbe anche dare una risposta alla domanda: se questa analisi non viene
capita o non viene accettata dal mondo politico ed economico italiano noi
meridionali cosa dovremmo fare?
Rocco Biondi
Antonella Musitano, Sud, tutta un’altra storia. Platì 1861: un caso emblematico di
“brigantaggio”, prefazione di Lino Patruno, Laruffa Editore, Reggio
Calabria 2013, pp. 200, € 13,00
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