Renzo
Del Carria, nel suo libro del 1966 "Proletari senza
rivoluzione", indica una possibile traccia da seguire nello
studio del brigantaggio postunitario (1860-70), che è molto vicina
all'approccio da me seguito nella lettura dei fatti avvenuti in
quegli anni nel Meridione, nei territori dell'ex Regno delle Due
Sicilie.
Dico
subito che ho spogliato il libro dall'ideologia marxista sottesa,
acquisendo solo il contributo di indirizzo e metodo nella ricerca
storiografica. Per completezza d'informazione aggiungo che Del Carria
divenne poi dirigente della Lega Nord di Bossi.
Scrive:
«Per
indagare il perché la rivoluzione sia stata sconfitta in Italia
occorre esaminare criticamente la storia contemporanea italiana "a
rovescio" partendo nell'indagine dal punto
di vista organico delle classi subalterne.
Occorre cioè esaminare quegli avvenimenti con gli occhi degli
operai, dei contadini e dei loro alleati: occorre esaminare come da
loro furono vissuti, come da loro furono visti, e quale fu lo spirito
e la volontà di lotta che li animò».
Questo
vale anche per il brigantaggio postunitario. Le lotte dei briganti
avvenivano senza alcuna ideologia, erano volontà di lotta contro lo
Stato nemico, prendendo spesso a prestito ideologie reazionarie (i
borbonici e il clero). Le rivolte dei briganti erano "spontanee",
non erano dirette da gruppi politici organizzati, non seppero
esprimere dirigenti organici, pur avendo in loro forza e volontà
rivoluzionaria.
I
briganti per narrare le loro lotte avrebbero avuto bisogno di una
storiografia organicamente "loro", "a rovescio"
rispetto a quella scritta dagli storici borghesi e anche dagli
storici revisionisti. Occorreva - scrive Del Carria - romperla con la
storiografia della classe dominante. Ma così non fu, sia perché i
briganti erano quasi tutti analfabeti, sia perché nessun
intellettuale ritenne che quei fatti meritassero di essere scritti e
tramandati. Se i briganti e i loro discendenti avessero fatto un
tentativo di scrivere la loro storia, raccontare i loro fatti,
narrare gli avvenimenti da loro vissuti, così come da loro furono
visti durante gli episodi delle loro lotte rivoluzionarie, se tale
storia fosse stata scritta, sarebbe stata enormemente diversa da
tutte quelle sinora esistenti.
Tentativi di scrivere una simile storia ne sono stati fatti, ma quasi
sempre inserendola nella più generale storia "borghese".
L'altra storia, autonoma e indipendente, è ancora da scrivere.
In
concomitanza con la campagna di Garibaldi in Sicilia, anche nel
meridione continentale si era levata la guerra contadina. Nel primo
anno con la caratteristica di larghe insurrezioni di masse contadine
e nel triennio successivo di una vera e propria guerra contadina per
bande. Si trattò di una generale rivolta agraria che richiese per la
repressione circa 250.000 uomini, tra esercito piemontese,
carabinieri e guardie nazionali. Tale lotta scosse dalle fondamenta
tutto l'apparato burocratico-poliziesco della Stato unitario appena
nato e impegnò l'intero Stato Maggiore Sabaudo. Le parole d'ordine
della rivolta furono «W il Papa», «W il Borbone», «W il popolo
basso».
La
storiografia ufficiale ha volutamente sottovalutato queste rivolte,
attribuendole ad uno stato di arretratezza di masse incolte,
definendole violazioni criminali, sopravvalutando l'elemento della
cospirazione borbonica (che comunque fu certamente notevole). Il
primo storico che invece ha visto queste lotte come una grossa guerra
contadina, con caratteristiche proprie, è stato Franco Molfese. La
fame e la miseria dei contadini, aumentate con l'abolizione degli usi
civici (diritti spettanti alla collettività sui terreni demaniali e
non solo), divenivano insopportabili, facevano prendere coscienza
dell'ingiustizia e portavano all'aperta rivolta.
I
briganti sono il braccio armato del popolo. Nel 1860 la borghesia che
deteneva il potere era solo l'1,92% dell'intera popolazione. Oltre
l'80% della popolazione era rappresentata da contadini quasi tutti
analfabeti. La restante parte era costituita da piccoli artigiani e
piccola borghesia. Solo i galantuomini-borghesi erano alleati dei
piemontesi. Tutti gli altri guardavano con sospetto i nuovi arrivati
piemontesi. Ciò spiega perché i briganti riuscirono a resistere per
quasi un decennio.
Le
rivolte agrarie e brigantesche meridionali nacquero, si svilupparono
e vissero indipendentemente dai Comitati borbonici. I contadini del
sud lottarono da soli per circa un decennio, prendendo a prestito dal
Borbone il suo bianco vessillo e dalle sue casse i resti dell'oro
elargito ai legittimisti. Essi combatterono - scrive il Del Carria -
in maniera propria la propria guerra per le proprie rivendicazioni
nelle proprie boscaglie contro i propri padroni ed i suoi alleati
"piemontesi".
La
rivolta dei briganti era carica di una grande esplosione
rivoluzionaria, ma con l'unica prospettiva di abbattere la situazione
sociale esistente senza purtroppo riuscire a progettare qualcosa di
nuovo; così nei fatti la loro battaglia era già perduta sin
dall'inizio.
Rocco Biondi
Rocco Biondi
2 commenti:
Riporto uno stralcio: «W il Papa», «W il Borbone», «W il popolo basso»
In effetti, ancor oggi il popolo tutto che combatte ancora l'invasore, sembra dividersi in questi tre tronconi senza possibilità di coalizzarsi in un unico movimento. La necessità è di un nuovo pensiero che riesca a superare questa atavica suddivisione. Basterebbe inneggiare alla libertà dallo schiavismo della moneta e tutto dovrebbe quadrare.
Mi viene in mente la distinzione effettuata da Marx tra "classe in se" e "classe per se". Parlando degli operai della grande industria egli nota come: "La dominazione del capitale ha creato a questa massa una situazione comune, interessi comuni. Così questa massa è già una classe nei confronti del capitale, ma non ancora per se stessa".
Lo stesso si potrebbe dire dei contadini meridionali in questione.
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