Libro rimasto a tutt'oggi fondamentale
per conoscere e capire l'intervento legittimista spagnolo in favore
del Re Borbone e contro il Regno d'Italia dei Savoia. Viene
illustrata l'ampiezza di quell'impegno attraverso l'esame di una
copiosa documentazione inedita dispersa negli archivi spagnoli,
italiani e vaticani. Il periodo interessato va dal 1860 al 1866.
Per legittimismo qui si intende la
lotta armata contro i Savoia piemontesi nel tentativo di riportare
sul trono del Regno delle Due Sicilie lo spodestato re borbone
Francesco II, al quale si continuava a riconoscere il legittimo
diritto di ritornare sul trono. Attori principali furono degli
ufficiali carlisti che avevano combattuto la guerra di successione a
fianco di Don Carlos Isidro, perdendola; regina di Spagna era
divenuta invece Isabella II.
Il governo spagnolo, guidato dal
generale Leopoldo O'Donnel, nella questione italiana si attenne nei
fatti ad una comoda neutralità, come del resto l'Austria e la
Russia, e tuttavia una qualche compromissione della Spagna si diresse
più in favore di Pio IX che di Francesco II, anche se tale sostegno
fu solo di carattere diplomatico.
Il diplomatico spagnolo Salvador
Bermúdez de Castro si
schierò apertamente dalla parte del Re Borbone in esilio a Roma. Fin
dal 1853 era ministro di Spagna presso la Corte napoletana, amico
personale di Francesco II lo seguì prima a Gaeta e poi a Roma;
cooperò attivamente a favorire la reazione armata. Caldeggiò in
tutti i modi l'impresa di Borges.
Il generale José Borges nel 1861 aveva
48 anni, aveva partecipato in Spagna al primo conflitto carlista
insieme al padre, nel secondo (1847-49) era stato generale di brigata
e comandante in capo dei carlisti di Tarragona, nel 1860 aveva
appoggiato il tentativo insurrezionale del conte di Montemolín
(Carlos VI secondo la successione legittimista). Dopo la sconfitta si
rifugiò in Francia, dove per vivere fece modesti lavori, tra cui il
rilegatore di libri. Ma non rinunciò mai alla sua vocazione
militare. Offrì senza riuscirci i suoi servigi all'esercito
pontificio. Aderì entusiasticamente alla causa borbonica. Tentò
senza successo di entrare nelle fortezze assediate di Gaeta e
Messina.
La grande avventura di Borges inizia
con lo sbarco, al calar della notte del 13 settembre 1861, su una
spiaggia vicino a Brancaleone in Calabria. Erano in 20, di cui 18
spagnoli e due napoletani. Erano partiti da Malta la notte dell'11
settembre. Si uniscono per alcuni giorni con la banda del brigante
Mittica, composta di circa 120 uomini. Ingaggiano alcuni conflitti a
fuoco con i piemontesi. Il 19 ottobre Borges si incontra nel bosco di
Lagopesole in Basilicata con il capo brigante Carmine Crocco.
Combattono insieme ed ottengono molti successi. Riescono a mettere
insieme forse 3.000 uomini. Ma fra i due la visione di come condurre
l'offensiva è totalmente diversa ed inconciliabile. Il comando non
venne mai davvero affidato a Borges, che deluso rinuncia e prende la
strada per Roma, seguito dagli spagnoli e da alcuni insorti locali.
Ma prima di varcare il confine dello Stato pontificio vengono
arrestati e fucilati a Tagliacozzo l'8 dicembre 1861. Erano 17, di
cui 8 napoletani e 9 spagnoli. Fra questi ultimi vi era José Borges.
Addosso gli furono trovate varie carte, tra le quali un
taccuino-diario scritto in francese. Finiva così, con un totale
fallimento, la prima spedizione di spagnoli al servizio dei Borbone
napoletani.
Mentre si svolgeva l'offensiva di
Borges, le autorità borboniche a Roma non avevano cessato di
approntare altre iniziative. Il catalano Rafael Tristany, anch'egli
come Borges carlista e generale di brigata, giunse a Roma per porsi
al servizio di Francesco II nel novembre 1861. Aveva 47 anni. Dopo il
fallimento di due precedenti tentativi, Tristany nel marzo 1862
intraprende una nuova campagna contro il Regno sabaudo sui monti al
confine tra lo Stato pontificio e l'Abruzzo. Vi rimase per più di un
anno. Le forze armate del Papa, che presidiavano quel confine, non
opposero mai un serio impedimento alla guerriglia. La stessa
accondiscendenza veniva data dai soldati francesi fin quando furono
comandati dal filolegittimista generale Charles de Goyon. Obiettivo
di Tristany era quello di riunire i legittimisti spagnoli, francesi e
tedeschi insieme ai briganti di Luigi Alonzi, detto Chiavone, che
operava presso Sora e comandava una banda di circa 200 uomini. Ma
anche in questo caso non furono buoni i rapporti tra lo straniero
Tristany e l'indigeno Chiavone. Questa volta però ad avere il
sopravvento fu lo spagnolo, che fece arrestare e fucilare il capo
brigante (anche se alcune versioni non danno per morto Chiavone).
Successivamente Tristany fu arrestato dai francesi e allontanato
definitivamente dall'Italia. In un suo diario Tristany ha sostenuto
che il fallimento della lotta armata borbonica fu determinato dalla
mancanza di denari e di quadri e dai contraddittori ordini dei
Comitati borbonici. I giudizi che vengono dati su Tristany sono per
lo più ostili, fino all'accusa di grande venalità che lo avrebbe
fatto passare addirittura con i piemontesi. Albònico però lo
difende e ne da un giudizio complessivamente positivo.
Altro personaggio spagnolo che entra
nelle vicende della lotta borbonica è il luogotenente di Tristany,
il carlista spagnolo Juan Serracanta, falegname ebanista, che come
tanti altri, sia italiani che stranieri, hanno sfruttato le
operazioni della Corte borbonica per fare soldi. Serracanta effettua
uno spudorato doppio gioco e in cambio di denaro promette di far
cadere i suoi uomini, spagnoli e napoletani, nelle braccia dei
piemontesi. Questi ultimi in questo affare spendono parecchi soldi,
ma con scarsissimi risultati.
Altri spagnoli di un certo rilievo che
hanno appoggiato la lotta legittimista sono stati il colonnello
Silvestre Bordanova, prima carlista e poi appartenente alle forze
armate regolari spagnole, e Agustín
Capdevila, compagno d'armi di Borges. Ambedue avevano partecipato
alla difesa di Gaeta. Successivamente Bordanova si ritirò in Spagna,
mentre Capdevila fu fucilato dai piemontesi a Lagopesole, in
Basilicata, nel gennaio 1862.
In totale il numero degli spagnoli
impegnati nel tentativo di organizzare l'opposizione armata al Regno
d'Italia piemontese non superò il centinaio.
Albònico chiude il suo libro tirando
delle conclusioni, che sostanzialmente condivido. Grande è stata la
pochezza morale, ma anche militare e politica, dei protagonisti della
vicenda, sia borbonici che piemontesi; non si riesce a individuare
quale delle due parti sia ricorsa a metodi peggiori, chi abbia
commesso più malefatte. La fine del brigantaggio politico è da
fissare non alla fine del 1861 con la morte di Borges, come molti
fanno, ma alla fine del 1863 con la firma della convenzione
franco-piemontese e la scomparsa dalla scena di Tristany, Bosco e
Serracanta. I briganti inoltre combattevano una loro guerra
autoctona, parallela a quella in favore di Francesco II. Molto grande
fu la profusione di denaro pubblico da parte del Ministero
dell'Interno piemontese per pagare agenti provocatori, che talvolta
sfruttarono anche i cosiddetti briganti. Viene rivalutata la figura
di Francesco II, che non è assolutamente spregevole e insignificante
come interessatamente lo dipinge la pubblicistica liberale
filopiemontese.
Ancora da approfondire rimane il
coinvolgimento spagnolo extragovernativo a favore dei Borbone, quale
quello della regina Isabella II, dei vescovi e dei maggiorenti del
carlismo.
Aldo Albònico, La mobilitazione
contro il Regno d'Italia: la Spagna e il Brigantaggio meridionale
postunitario, Giuffrè Editore, Milano 1979, pp. 402
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