Lo
scrittore Luigi Capuana è nato a Mineo (Catania) nel 1839 ed è
morto a Catania nel 1915. In questo scritto, che venne steso e
pubblicato nel 1892, viene difesa la Sicilia dagli scrittori che ne
parlavano male. A cominciare da Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino,
deputati toscani, che furono incaricati dalla destra, allora al
governo, di stendere un’inchiesta sulla Sicilia. I due, che
visitarono l’isola, la descrissero come arretrata e feudale. Contro
di essi si scaglia Capuana, che scrive come nell’isola la
criminalità era uguale a quella delle altre provincie continentali
italiane, anzi dalle statistiche risultava inferiore.
Anche
se, parlando del brigantaggio, in genere lo considera negativamente,
incorrendo in qualche contraddizione; come quando scrive che
«prefetti, sottoprefetti, consiglieri di prefettura, magistrati,
funzionari» lasciavano trasparire dalla trascuratezza dei loro abiti
una certa aria di miseria, sconvolgendo la fantasia della popolazione
abituata al fasto dei loro omologhi del governo borbonico. I
siciliani si credettero trattati male, da gente conquistata, da
sfruttare soltanto, «e se ne vendicarono arricchendo il loro
dialetto di un sinonimo spregiativo con la parola: piemontese».
Capuana
cita nel suo pamphlet (breve pubblicazione scritta con intento
polemico) vari autori, fra questi principalmente Giovanni Verga con
le sue Vita dei campi e Novelle rusticane dove vive «la
parte più umile del popolo siciliano, con le sue sofferenze, con la
sua rassegnazione orientale, con le sue forti passioni, con le sue
ribellioni impetuose e coi suoi rapidi eccessi».
Capuana
ricorre nel suo scritto al sotterfugio del “brav’uomo”, che
riflette sulla differenza tra forma e sostanza che dividono il
comportamento del brigante e del cassiere infedele; mentre
quest’ultimo s’impossessa del denaro destinato alla povera gente
senza nulla far trasparire, il brigante invece rischia la sua vita; e
il brav’uomo, che giudica peggiore il comportamento del cassiere
infedele, si domanda perché quest’ultimo non suscita almeno la
stessa indignazione del brigante.
«Il
brigantaggio infatti – scrive il Capuana – non nuoce soltanto al
derubato o al ricattato, ma intralcia la vita pubblica di un’intera
provincia, rendendo mal sicure strade e campagne». Ma subito dopo
aggiunge che è un fenomeno comunque da osservare, e studiare per
quali ragioni si produca anche nelle altre provincie italiane.
Non
si possono dimenticare gli orrori della caccia ai renitenti alla
leva, assediando paesi, fucilando i cittadini, arrestando povere
donne incinte e facendole morire nelle prigioni, bruciando vivi i
contadini.
E
il pover’uomo sogna invano ad occhi aperti, meglio sarebbe dire
vaneggia, mani fraterne che si stringono, occhi che ammirano, cuori
che palpitano, ma anche briganti in grado di resistere alle loro
inclinazioni cattive.
Capuana,
che in tutto il saggio non fa differenza tra brigantaggio e
delinquenza organizzata, solo alla fine in appendice interviene sulla
mafia, riportando un articolo del suo amico Giuseppe Pitrè; il quale
sembra distinguere tra mafia e brigantaggio.
Rocco
Biondi
Luigi
Capuana, La Sicilia e il brigantaggio, introduzione di
Carlo Ruta, Edi.bi.si, Palermo 2005, pp. 110
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