Già
dal titolo si intuisce la tesi del libro: i Briganti post-unitari hanno
combattuto contro l’unità d’Italia. Ma questa affermazione può essere accettata
sia dagli unitaristi che dagli antiunitaristi; acquista significato a seconda
del campo in cui si milita. L’autore del libro è un unitarista e quindi il
brigantaggio diventa un fenomeno sostanzialmente negativo. Per Friggi i
revisionisti detrattori del Risorgimento, rivalutando il Brigantaggio meridionale,
rivendicano maggiore autonomia per il Sud, quando non addirittura la
separazione territoriale.
La
polemica sulla natura e sulle cause del brigantaggio post-unitario scoppiò con
la nascita stessa del fenomeno e fu molto vivace nel primo decennio dell’unità.
Successivamente l’animosità lasciò il posto, nei due campi, a più pacate
indagini e discussioni, con conseguenti proposte per tentare di risolvere nel
migliore dei modi i problemi del meridione.
Solo
nella seconda metà del Novecento – scrive Friggi – gli studi sul brigantaggio
tornano di moda, arricchendosi di contributi che diverranno determinanti per la
ripresa delle polemiche tra unitari e antiunitari. A riaccendere la miccia
furono gli studi di Franco Molfese e di Renzo Del Carria; ma mentre il libro
del primo è tutto incentrato sul brigantaggio, quello del secondo affronta la
questione all’interno di una più ampia ricostruzione delle lotte proletarie.
Anche se i due autori, entrambi d’impostazione marxista, hanno avuto
un’influenza decisiva sulla formazione della generazione successiva, è stato
solo nell’ultimo decennio che gli studi sulla questione del brigantaggio hanno
avuto un’impennata, soprattutto ad opera degli studiosi più critici verso il
processo unitario.
E
secondo Friggi, negli studi sul brigantaggio, alla vecchia impostazione sociale
marxista si è sostituita quella clericale, nostalgica del regime borbonico.
Ritengo però che questa sia una visione parziale e strumentale, che non rende
merito ai tantissimi studiosi laici che continuano a privilegiare la componente
sociale del brigantaggio senza alcuna nostalgia di un ritorno ai Borbone.
Il
libro di Friggi si compone di due parti: la prima, di carattere storico,
tratteggia alcune figure significative del brigantaggio e parla di alcuni
luoghi simbolo, la seconda, di carattere attuale, tenta di rispondere alla
domanda su a chi giovi oggi recuperare il brigantaggio.
Luciano
Priori Friggi in questo suo libro riprende e fa proprie le tesi filopiemontesi
del come e perché si sia arrivati all’unità d’Italia e del ruolo svolto dai
briganti durante i primi anni unitari. Viene attaccato l’odierno revisionismo
antirisorgimentale, che lui ritiene essere prevalentemente cattolico e
filoborbonico, operando però in questo modo una grande semplificazione dei
molti e variegati studi che si vanno facendo in questi ultimi anni. Sostanzialmente
quindi non vi è nulla di nuovo nelle sue tesi.
Riporto
di seguito alcuni suoi pensieri. Il Regno borbonico delle Due Sicilie
costituirebbe un grande ostacolo allo sviluppo dell’Italia una e quindi andava
soppresso. Carmine Crocco era uno strumento in mano alla reazione borbonica e
cattolica, a capo di una masnada brigantesca dedita al ladroneggio e a delitti
efferati. Il piemontese generale Cialdini, quasi un salvatore, punta a
restaurare nel napoletano l’ordine e a farlo rispettare. Pontelandolfo e
Casalduni vengono giustamente puniti con la distruzione per essersi ribellati ai
piemontesi; i morti bruciati furono una diecina e non migliaia. Borges è un
generale spagnolo a cui i Comitati reazionari borbonici vogliono affidare la
direzione della cospirazione, sottraendola al capo-brigante Crocco.
Nella
seconda parte del libro Friggi tenta di smontare le critiche contro i filopiemontesi.
Per lui Lombroso è un celebre studioso e aggiunge: “E non si chiede solo la
restituzione dei resti del Vilella, e la sua ‘degna sepoltura’, ma addirittura
la chiusura del museo torinese, definito museo degli orrori”. Vengono attaccati
i Gesuiti ed Angela Pellicciari, che hanno osato definire i briganti patrioti e
i garibaldini delinquenti. Viene esaltato il filopiemontese ed unitarista Marc
Monnier, che avrebbe fatto uno studio scientifico del brigantaggio (in realtà
diciamo noi funzionale ai vincitori). Per Friggi sarebbero falsi i primati che
vengono vantati dai sostenitori del Regno delle Due Sicilie; Pietrarsa,
Mongiana, San Leucio sarebbero cattedrali nel deserto e per lo più in mano a
stranieri.
Vengono
denigrati Pino Aprile, Antonio Ciano, Nicola Zitara, Lorenzo Del Boca, Antonio
Pagano, Lino Patruno, Francesco Mario Agnoli; tutti revisionisti e
antipiemontesi. Con una certa sorpresa anch’io (Rocco Biondi) vengo incluso in
questa lista, anzi sarei (come Agnoli) doppiamente revisionista, in quanto in
contrasto sia con la storiografia di ispirazione liberale, che con i resoconti
e le valutazioni dei legittimisti più accreditati (Borges ma letto dalla parte
filopiemontese).
Di
fronte a questa impressionante offensiva revisionista – scrive Friggi – qualche
risposta dall’ambito accademico comincia ad arrivare; ma è in grado di citare
solo Alessandro Barbero. Ovviamente lui Friggi è da includere su questo fronte.
Il
libro contiene nella parte finale la sintesi di tutto il pensiero di Friggi: i
briganti strumentalizzati nel decennio post-unitario, lo sono ancora oggi. E il
fenomeno è tutt’altro che residuale. Un numero molto grande di persone si onora
di appellarsi brigante. “Ma, alla fin fine, che senso ha insistere tanto ai
giorni nostri – si chiede Friggi – sul recupero del brigantaggio, sul sud e sui
Borbone, vittime della rapacità del nord?”. L’obiettivo, secondo lui, sarebbe
quello di far staccare il Sud dal resto dell’Italia, per riaffidarlo ai
Borbone. E’ facile però controbattere che quelli che aspirano a questo sono una
piccolissima parte del grande movimento meridionale.
Luciano Priori
Friggi, Briganti contro l’Italia.
Brigantaggio post-unitario: Mito, Leggenda o Storia? E, oggi, a chi giova
recuperarlo?, Microinet Editore, 2a edizione, 2013, pp. 263, €
16,90
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