Gigi Di Fiore, storico non allineato, cerca di fare chiarezza sulle «invenzioni, abbellimenti e superficiali spiegazioni» presenti nei libri di storia ufficiali, con cui si raccontano i fatti che accaddero nei ventidue anni che vanno dall’esplosione rivoluzionaria del 1848 alla breccia di Porta Pia del 1870.
Cerca di dare risposte soddisfacenti alle domande: come è possibile che un manipolo di mille garibaldini abbia sconfitto un esercito di 50.000 borbonici?, con quali poteri, più o meno occulti, e con quali mafie dovettero allearsi Garibaldi e Cavour?, perché ci vollero cannoni e fucili per domare la ribellione contadina dei briganti del Sud?, perché dall’esercito piemontese vennero invasi il Regno delle Due Sicilie prima e lo Stato pontificio poi senza alcuna dichiarazione di guerra?, come furono possibili i risultati, più che bulgari, a favore dell’annessione al regno sabaudo-piemontese nei plebisciti tenutisi nei ducati di Toscana, di Parma-Piacenza-Guastalla, di Modena, nell’intero territorio del Regno delle Due Sicilie, nel Veneto, nello Stato pontificio?.
La spedizione di Garibaldi contro il Regno delle Due Sicilie non fu certamente segreta, popolare, spontanea, ma si trattò di un’azione ben organizzata, finanziata e pianificata nei dettagli, con l’avallo del governo piemontese.
I molti soldi utilizzati per la buona riuscita della spedizione provenivano da molte fonti: finanziamenti inglesi, sottoscrizioni private, fondi della Società nazionale, denaro delle logge massoniche. Tutti avevano il loro interesse a liberare la Sicilia ed il Sud dai Borbone.
I volontari garibaldini, imbarcati a Genova sulle navi Piemonte e Lombardo, furono inizialmente 1089, suddivisi in otto compagnie. Tre giorni dopo l’indisturbato sbarco, avvenuto a Marsala l’11 maggio 1860, i volontari erano già diventati 15.000 (quindicimila). In Sicilia i baroni e la mafia non erano stati a guardare. A guardare invece erano rimasti, senza colpo sparare, generali e comandanti dell’esercito borbonico, già ben oliati e corrotti.
Anche in Calabria e Puglia si sparò pochissimo. Per le camicie rosse l’andata verso Napoli fu in pratica una passeggiata. Anche qui determinante fu l’intervento della camorra, che divenne Stato.
I conquistatori piemontesi non fecero nulla per farsi ben volere dal popolo del Sud, anzi con le loro leggi inasprirono la già triste condizione meridionale. Naturale fu quindi la rivolta contadina, che diede vita alla sanguinosa guerra civile del brigantaggio. Guerra civile che fece tanti morti pari a quelli delle tre guerre d’indipendenza messe insieme. I contadini del Sud difendevano i loro naturali diritti.
Nel 1861 le campagne meridionali divennero un vulcano in ebollizione, con la presenza di 39 bande armate brigantesche in Abruzzo, 42 al confine con lo Stato pontificio, 15 nel Molise e nel Sannio, 47 tra l’Irpinia e la provincia di Salerno, 47 in Basilicata, 34 in Puglia, 33 in Calabria, 6 in provincia di Napoli, come elencate nella Storia del Brigantaggio di Franco Molfese. Questo proliferare di bande armate non avrebbe potuto esistere se non vi fosse stato l’appoggio incondizionato delle popolazioni civili.
Ogni banda aveva il suo capo. Fra questi i più famosi furono: Carmine Crocco in Basilicata, che riuscì a raggruppare fino a mille uomini; Luigi Alonzi detto «Chiavone», che operava alla frontiera pontificia presso Sora, con 430 uomini organizzati con rigore militare; Pasquale Domenico Romano di Gioia del Colle, in Puglia, detto «il sergente Romano», che sperava di federare tutte le bande in rivolta in Puglia e Basilicata. Fra i briganti vi erano anche parecchie donne, che combattevano alla pari degli uomini.
La repressione da parte dei piemontesi fu spietata, fu dichiarato lo stato d’assedio del Sud, le fucilazioni sommarie divennero la regola, vi furono arresti senza prove e fucilazioni senza processi, furono bruciati e rasi al suolo interi paesi per rappresaglia, le donne venivano stuprate «non prima di aver loro strappato gli orecchini».
Ci vollero cinque anni, uno stato d’assedio, ventiquattro mesi di leggi speciali, per avere ragione della rivolta del Sud Italia.
Nemmeno la Chiesa romana fu risparmiata, furono soppressi gli ordini religiosi, furono acquisiti dallo Stato i loro beni. Tantissimi ecclesiastici furono mandati in esilio lontano dalle loro sedi, e fra essi molti vescovi. Nei soli primi mesi del regno d’Italia, erano stati processati e confinati ben sessantanove vescovi, tra cui due cardinali: Sisto Riario Sforza a Napoli e Filippo De Angelis a Fermo. Vennero aboliti i seminari diocesani e fu introdotto l’obbligo del servizio militare per i seminaristi.
Il 20 settembre 1870 l’esercito piemontese entra a Roma, Papa Pio IX si rifugia nel Vaticano. Il potere temporale dei Papi viene smantellato. L’unità d’Italia è fatta.
Si conclude il periodo storico del Risorgimento italiano, che ha lasciato il Paese Italia spaccato in due: «Nord e Sud, cattolici e liberali, democratici e destra, contadini e latifondisti». Spaccatura con cui «ancora oggi, nel bene e nel male, dobbiamo fare i conti».
Concordo con l’idea portante del libro di Gigi Di Fiore e che cioè la sacralità del Risorgimento non è più intoccabile; bisogna lasciare spazio a vedute culturali più ampie. «Non ci può essere futuro per un Paese che non sa riconoscere i suoi errori, che non sa fare autocritica anche su entusiasmanti pagine della sua storia come quelle risorgimentali. Rileggerne i passaggi negativi oggi non può che cementare il nostro sentimento nazionale», scrive Di Fiore.
Rocco Biondi
Ogni banda aveva il suo capo. Fra questi i più famosi furono: Carmine Crocco in Basilicata, che riuscì a raggruppare fino a mille uomini; Luigi Alonzi detto «Chiavone», che operava alla frontiera pontificia presso Sora, con 430 uomini organizzati con rigore militare; Pasquale Domenico Romano di Gioia del Colle, in Puglia, detto «il sergente Romano», che sperava di federare tutte le bande in rivolta in Puglia e Basilicata. Fra i briganti vi erano anche parecchie donne, che combattevano alla pari degli uomini.
La repressione da parte dei piemontesi fu spietata, fu dichiarato lo stato d’assedio del Sud, le fucilazioni sommarie divennero la regola, vi furono arresti senza prove e fucilazioni senza processi, furono bruciati e rasi al suolo interi paesi per rappresaglia, le donne venivano stuprate «non prima di aver loro strappato gli orecchini».
Ci vollero cinque anni, uno stato d’assedio, ventiquattro mesi di leggi speciali, per avere ragione della rivolta del Sud Italia.
Nemmeno la Chiesa romana fu risparmiata, furono soppressi gli ordini religiosi, furono acquisiti dallo Stato i loro beni. Tantissimi ecclesiastici furono mandati in esilio lontano dalle loro sedi, e fra essi molti vescovi. Nei soli primi mesi del regno d’Italia, erano stati processati e confinati ben sessantanove vescovi, tra cui due cardinali: Sisto Riario Sforza a Napoli e Filippo De Angelis a Fermo. Vennero aboliti i seminari diocesani e fu introdotto l’obbligo del servizio militare per i seminaristi.
Il 20 settembre 1870 l’esercito piemontese entra a Roma, Papa Pio IX si rifugia nel Vaticano. Il potere temporale dei Papi viene smantellato. L’unità d’Italia è fatta.
Si conclude il periodo storico del Risorgimento italiano, che ha lasciato il Paese Italia spaccato in due: «Nord e Sud, cattolici e liberali, democratici e destra, contadini e latifondisti». Spaccatura con cui «ancora oggi, nel bene e nel male, dobbiamo fare i conti».
Concordo con l’idea portante del libro di Gigi Di Fiore e che cioè la sacralità del Risorgimento non è più intoccabile; bisogna lasciare spazio a vedute culturali più ampie. «Non ci può essere futuro per un Paese che non sa riconoscere i suoi errori, che non sa fare autocritica anche su entusiasmanti pagine della sua storia come quelle risorgimentali. Rileggerne i passaggi negativi oggi non può che cementare il nostro sentimento nazionale», scrive Di Fiore.
Rocco Biondi
Gigi Di Fiore, Controstoria dell’Unità d’Italia - Fatti e misfatti del Risorgimento, Rizzoli, Milano 2008, pp. 464, € 19,50
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