24 maggio 2012

Il sangue del Sud, di Giordano Bruno Guerri


I briganti e i meridionali, scrive Guerri, non si sentivano «italiani». Lottavano per scacciare degli «stranieri» che sbandieravano una fratellanza forzata e che erano considerati usurpatori, colonizzatori arrivati per conquistarli e per cancellare la loro storia, i costumi, i legami e le appartenenze.
Il testo di Guerri, nella denuncia contro l'operato dei cosiddetti «padri della patria», va oltre l'intenzione dell'autore. Il sottotitolo del libro è "Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio", sottintendendo quindi che vi è una Storia ufficiale della quale si fanno degli aggiustamenti. Io invece credo che vi sia un'altra storia, diversa e indipendente da quella scritta dai vincitori, la storia della stragrande maggioranza del popolo meridionale che dal 1860 in poi si oppose agli invasori piemontesi. Il libro di Guerri si presta ad essere letto in quest'ottica.
La "guerra in-civile" di quegli anni non aveva nulla di cui i vincitori potessero vantarsi: si preferì quindi nascondere o addirittura distruggere i documenti, perché non fossero accessibili neppure agli storici. I briganti scontano, scrive Guerri, oltre alla sconfitta, anche il destino della "damnatio memoriae". A loro, non spetta l'onore delle armi.
Gli italiani erano indifferenti all'Italia, chiedevano soltanto un'esistenza più umana. Le aspirazioni dei poveri e quelle degli idealisti non avevano niente in comune. La gente chiedeva pane, mentre gli intellettuali volevano la Costituzione. Il popolo italiano non esisteva. C'erano solo individui - appartenenti a Stati diversi, con storie e lingue diverse - che avrebbero potuto anche essere uniti a patto che si partisse dai loro bisogni: cosa che non fu fatta.
Nei piani dello stesso Cavour non vi era l'Unità d'Italia; lui pensava ad una confederazione di tre regni sotto la presidenza onoraria del papa: uno settentrionale sotto i Savoia, uno meridionale sotto i Borbone, l'altro centrale «sotto il re che più conviene». Non era mai sceso più a sud di Firenze; non gli interessava affatto conoscere il Meridione, tanto era pieno di pregiudizi. Furono gli avvenimenti e interessi economici superiori a portare ad unificare il tutto sotto i Savoia piemontesi.
L'annessione del Regno delle Due Sicilie fu un bel boccone per i Savoia. Al di là delle falsità propagandistiche le Due Sicilie rappresentavano la parte più ricca della Penisola. Possedevano oltre i due terzi dell'oro di tutti gli altri Stati messi insieme. Per fare un esempio, mentre il Regno delle Due Sicilie possedeva 445,2 milioni di lire il Regno del Piemonte ne possedeva soltanto 27 milioni (6,06% rispetto alle Due Sicilie). Con i soldi del Sud furono appianati i debiti del Nord. Almeno nei trent'anni successivi all'Unità, l'Italia del Sud fu come una colonia del Piemonte.
Nel Regno delle Due Sicilie arrivarono in anticipo rispetto agli altri Stati italiani gas, telegrafo e ferrovia. Bastarono solo 270 giorni per ricostruire il Teatro San Carlo, dopo un incendio. Furono inaugurati il Museo Archeologico, l'Osservatorio Sismologico Vesuviano, la Biblioteca Nazionale di Napoli. All'inizio dell'Ottocento nacquero l'Accademia delle Belle Arti, l'accademia Reale Militare, l'Istituto statale per i sordomuti, il convitto di chirurgia e medicina, il convitto di musica. Nei numerosi ospedali e ospizi prestavano servizio ben 9000 medici. Le industrie siderurgiche, meccaniche, cotoniere, della carta si erano sviluppate con ritmi altrove impensabili, impiegando fino a 1.600.000 addetti contro il milione del resto d'Italia. La flotta mercantile e quella militare erano ai primi posti a livello mondiale. Disoccupazione e emigrazione erano pressoché assenti.
Ma la base dell'economia meridionale, scrive Guerri, restava l'agricoltura. A reggere lo Stato erano i contadini; a goderne, altri. La redistribuzione della proprietà terriera non fu mai presa seriamente in considerazione dai Borbone. Nemmeno con l'arrivo dei «forestieri piemontesi» venne affrontata la questione agraria, che era l'unica via per favorire un processo moderno di economia. E questa mancanza sarà una delle principali cause del brigantaggio.
Impossibile fornire un identikit del contadino che diventa brigante e del brigante che si trasforma in generale. Ognuno ha una sua storia. Ma ciò che li accomuna e li incita alla battaglia sono valori come terra, giustizia, onore, tradizione, orgoglio, cacciata dello straniero. La componente dell'insorgenza e della ribellione sociale rappresenta la spinta maggiore. Ma i briganti erano anche «partigiani», lottavano per avere la possibilità di scegliere da chi essere comandati e come. E fra i Borbone e i Savoia sceglievano i Borbone.
I piemontesi per contrastare i briganti e i meridionali scelsero la via peggiore: la forza cieca che sfociò anche in episodi da sterminio di massa. Nel momento più aspro della guerra, tra il 1862 e il 1863, l'esercito di stanza al Sud nella lotta al brigantaggio contò fino a 120.000 uomini, quasi la metà dell'intero esercito unitario. Fu un'immane carneficina.
La Chiesa e i Borbone favorirono la lotta dei briganti. Ma l'appoggio maggiore venne dato dalla stragrande maggioranza della popolazione.
Guerri narra le imprese di alcuni fra i capi briganti più significativi: Pasquale Domenico Romano (Sergente Romano), Luigi Alonzi (Chiavone), Carmine Crocco (il Re dei Briganti), José Borges (legittimista spagnolo). Parla anche di diverse brigantesse.
Il colpo di grazia al brigantaggio venne dato dalla Legge Pica, che instaurò nel Sud la dittatura militare. Fu operativa dal 15 agosto 1863 al 31 dicembre 1865.
La miseria nel Sud aumentò. Per i vinti rimaneva la desolazione. L'unica alternativa divenne l'emigrazione.
L'Italia che nacque allora, conclude Guerri, dopo un secolo e mezzo, continua a portarsi dietro i malanni della sua infanzia.
Rocco Biondi

Giordano Bruno Guerri, Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio, Mondadori, Milano 2010, pp. 298, €. 20,00