28 aprile 2007

I Briganti di Sua Maestà

Per capire chi siano stati i Briganti che lottarono nell’Italia meridionale, negli anni 1860/70, un libro importante (quasi fondamentale) da leggere è I Briganti di Sua Maestà di Michele Topa. Non è facile trovarlo in vendita, lo si può reperire in qualche biblioteca.
Michele Topa è stato giornalista de Il Mattino, Corriere della Sera, Il Giornale di Montanelli. E’ autore anche del ponderoso volume Così finirono i Borbone di Napoli.
L’autore a proposito del titolo scrive che è un suggestivo ossimoro [accostamento di due termini contraddittori] che gli era stato suggerito da Dino Buzzati. I Briganti sono stati degli intrepidi guerriglieri del distrutto Regno delle Due Sicilie, che si battevano per liberare la loro terra invasa dai piemontesi e riportare sul trono il loro Re. In quei tempi grande era il feeling tra il popolo e i sovrani borbonici. Per i proletari delle campagne era tutt’uno lottare per il Re e la Nazione napoletana, e cercare il riscatto dal doloroso e avvilente loro stato di reietti della società. I Re borbonici erano sempre stati dalla parte dei più deboli e poveri, contro la classe avidissima della borghesia agraria.
I meridionali erano stati ingannati dalle mirabolanti promesse dei piemontesi e dei loro accoliti unitari: abolizione della tassa sul macinato, riduzione del prezzo del pane e del sale, soluzione degli annosi problemi demaniali. Quelle promesse si erano tradotte nell’esatto opposto. Un manipolo di padroni di terre angariavano le grandi masse rurali. Era naturale ribellarsi a quello stato di cose che venivano creandosi. I contadini erano ignoranti ma non minchioni. Il “voto unanime” nel plebiscito del 1860 per l’annessione al Piemonte era stato una truffa.
La fuorviante etichetta di brigantaggio, affibbiata ad un grande movimento popolare, cominciò ad essere usata, nella pubblicistica, dal corifeo asservito alla propaganda sabauda Marc Monnier.
Non potevano essere tutti briganti le migliaia e migliaia di uomini e donne, vecchi e giovani, persino ragazzi, che lottavano e davano la loro vita per un ideale e per riscattarsi dalla miseria. In quegli anni nel meridione si combatté una guerra civile, nella quale l’esercito piemontese e i loro accoliti unitari si macchiarono di feroci e sanguinari misfatti. Soltanto nei primi nove mesi del 1861 furono uccisi circa ventimila “briganti” e “favoreggiatori”. Non sapremo mai, a causa della censura allora imposta, quanti ne caddero di “briganti” in combattimento o dinanzi ai plotoni di esecuzione fino al 1870. Non è possibile che essi fossero tutti dei malfattori e delle sanguinarie canaglie.
Il libro narra, con linguaggio accattivante, di quei tragici fatti, iniziando dalla fuga da Gaeta di Francesco II e Maria Sofia, e terminando con la triste epopea dell’emigrazione, che vide gli sconfitti meridionali partire per terre lontane e sconosciute, dove li aspettavano altri patimenti ed altri sacrifici. Nelle pagine intermedie del libro si parla dei grandi condottieri partigiani/briganti: Carmine Crocco, José Borjès, Pasquale Domenico Romano, degli altri capi dei tantissimi altri gruppi che operavano nella guerriglia, si parla della famigerata e mostruosa “Legge Pica” che mise a ferro e fuoco tutto il mezzogiorno, si parla dei tanti paesi rasi al suolo per vendetta dall’esercito piemontese come Pontelandolfo e Casalduni, si parla della disagiata e triste vita quotidiana dei “briganti”, si parla di una guerra che purtroppo non poteva essere vinta, si parla di una sconfitta che fa sentire le sue tristi conseguenza ancora oggi. L’unità d’Italia doveva esser fatta, ma non in quel modo.

Michele Topa, I Briganti di Sua Maestà, Fratelli Fiorentino, Napoli 1993, pp. 365

21 aprile 2007

Unadiecicentomille NERO VITE di Uccio Biondi

Ricordo i lontani tempi di frequentazione delle cantine romane negli anni 70. Mi ritornano alla memoria Giancarlo Nanni e Manuela Kusterman, Memé Perlini, Giuliano Vasilicò, Valentino Orfeo, Carmelo Bene, Leo De Berardinis e Perla Peregallo, Carlo Quartucci, Carlo Cecchi, Claudio Remondi e Riccardo Caporossi. Il teatro sperimentale romano. Con i suoi luoghi: Beat 72, La Fede, La Piramide, L’Abaco. Un mondo che non c’è più.
Non so se questa opera prima teatrale di Uccio Biondi ha le sue radici in quei tempi. Ma a me ha fatto tornare indietro. E mi chiedo che impressione può fare questo spettacolo su chi quei tempi non ha vissuto.
Ma forse bisogna lasciarsi suggestionare da quello che avviene, ora, sulla scena. Svincolandosi dalle ascendenze culturali. Non necessariamente bisogna rispecchiare un nostro vissuto. Diventiamo parte di una realtà che si crea assistendo allo spettacolo. E forse sono utili, per entrare nell’ingranaggio della messinscena, le note di regia dell’autore. Ma non sono indispensabili. Ognuno può vedere e capire a modo suo. Certamente però non è un teatro facile da masticare.
Gli attori recitano e vivono in un microspazio quale può essere una zattera di salvataggio, dopo un naufragio. Tavole di metri 3,50 per 2,40, poggiate su grossi pneumatici. Accanto un bidone colorato. Lo spazio minimo costringe le cinque naufraghe a incontrarsi e scontrarsi. Forse sfuggono al naufragio della vita moderna. Diventiamo testimoni del loro essere. Ma «le protagoniste-eroine, non chiedono aiuto, esigono rispetto». Ci immedesimiamo nella donna che vive una vita virtuale attaccata al suo computer, nella donna che dà e riceve piacere attraverso il suo corpo, nella donna che si esalta con i profumi artificiali, nella donna asservita ed alienata dalla televisione, nella donna che si stanca ragionando troppo. Ma su tutte sovrasta una statua di gesso, immobile e parlante, che forse unica ha raggiunto un suo equilibrio.
Teatro della parola e della riflessione. L’azione conta poco.
Uccio Biondi dichiara di essersi ispirato molto liberamente alla raccolta di poesie in dialetto “Nguna vite” di Pietro Gatti, citandone alcuni passi durante lo spettacolo.
NERO VITE, scrive ancora Uccio Biondi, pare essere il cabaret del colore nero come la fuliggine, cinico come la coscienza della morte, puro ed essenziale sino a proiettarsi in un tempo altro dal presente: il futuro o il passato.
Lo spettacolo è andato in scena al Teatro Comunale di Ceglie Messapica (Brindisi), sabato 21 aprile 2007. Gli attori: Rosangela Chirico, Mariangela Gioia, Marinella Curri, Giovanna Prezioso, Paola Riascos, Donato Spina, Mimma Cavallo.

17 aprile 2007

Rodolfo Valentino l’emigrante leggendario

Ho assistito questa sera, presso il Teatro Monticello a Grottaglie (Taranto), alla prova generale dello spettacolo teatrale “Rodolfo Valentino l’emigrante leggendario” di Rina La Gioia. Interprete l’attrice Mita Medici. Scelta coraggiosa e significativa affidare il ruolo del mito maschio di Valentino ad una donna. L’autrice ha scritto che non ha voluto essere una provocazione, ma una strategia, un gioco scenico, per mettere a nudo l’identità vera ed intima di Valentino. Il Mito non ha sesso.
«Il sogno è qui, dentro di noi», è la battuta che chiude lo spettacolo. Uno spettacolo dove la parola, come in tutto il teatro del resto, la fa da padrone. E’ forse la vendetta di uno dei più grandi attori del cinema muto. L’autrice Rina La Gioia gli ha dato la voce. E Valentino narra del suo amore per l’Italia, del suo amore per la madre, del suo intimo essere oltre le apparenze. «Non è vero quello che dicono!...», ripete continuamente, quasi a volersi liberare dai cliché che la pubblicistica gli ha cucito addosso.
Ma il Valentino di questa pièce teatrale forse parla per noi, parla al posto nostro. Esprime i nostri desideri, i nostri sogni. Il nostro sogno vive ancora, mentre il suo «è finito… per sempre».
Elemento scenico fondamentale ed unico è una immensa valigia di cartone, che riempie tutta la scena. Essa racchiude la vita di Valentino, degli immensi dischi di vinile in alto a sinistra, gli abiti di scena dei suoi più importanti film, un grandissimo specchio, cappelli. In essa viene rappresentata la storia. Cambi di abito in scena. La Medici oltre ad indossare gli abiti di Valentino, indossa anche gli abiti femminili di alcune donne che hanno “amato” Valentino. La protagonista impersona il Mito ed il suo doppio.
Aprono e chiudono lo spettacolo due artisti di strada, su dei trampoli altissimi. Una coppia di tango argentino balla in scena. Un violinista ed un fisarmonicista suonano dal vivo.
Lo spettacolo ha i numeri per avvincere. Oggi era la prova generale. Durante il rodaggio subirà certamente degli aggiustamenti. La stessa Mita Medici col tempo reciterà in modo meno straniante.
Bello spettacolo. Da vedere. I più anziani potranno rinverdire un mito; mentre i giovani lo potranno scoprire.

6 aprile 2007

Poeti a Villa Castelli - Verso dove

Mercoledì 4 aprile 2007 ho presentato un libro di poesie nella sede del “Laboratorio Collettivo” di Villa Castelli (BR), il mio paese. Erano presenti il sindaco, alcuni assessori, consiglieri comunali, i genitori dei ragazzi che frequentano il “Laboratorio”, i ragazzi del “Laboratorio”.
Il libro, che si intitola “Verso dove – 11 direzioni poetiche”, è stato edito dallo stesso “Laboratorio” in strettissima economia. Raccoglie poesie di 11 autori, per la maggior parte ragazzi del “Collettivo”, ma anche adulti di Villa Castelli e due poeti che vivono a Milano. Questa raccolta è la “prosecuzione ideale” di un’altra raccolta dallo stesso titolo, pubblicata qualche anno fa. E’ «un’amalgama di voci eterogenee, a volte confuse, altre volte rabbiose… oppure consapevoli, precise, militanti».
Le poesie sono in “verso libero”, svincolato da ogni schema metrico; l’unico segno metrico è l’”a capo”. Oggi non è il metro a fare la poesia, ma la sua specifica organizzazione logica e contenutistica. Elementi portanti non sono più le rime, ma l’allitterazione e l’assonanza.
Temi ai quali ho accennato nella mia relazione sono stati: poesia e vita, poesia come messaggio, poesia d’arte e poesia popolare, poesia dialettale, poesia astratta, poesia e sogno, poesia come artificio, poesia come straniamento, poesia come deformazione del reale, poesia come doppio senso, poesia come esaltazione del negativo, poesia come esotismo, poesia come avventura – scacco – rischio – azzardo – naufragio, poesia come tendenza al drammatico e al malinconico, poesia come scontentezza di sé, poesia come descrizione di angosce private.
I libri di poesie, compresi quelli politicamente più impegnati, traboccano di preoccupazioni personali, quali la ragazza, la donna, il sesso, l’amicizia, l’amore, l’odio, il sangue, il gioco… Anche i poeti ribelli e maledetti si umanizzano.
Di ogni autore ho individuato gli elementi per me caratterizzanti. Domenico Giovane: oscurità, sangue, dubbio; Mario D’Angela: ermetismo, la poesia diventa realtà; Daniel Siliberto: amore, colori bianco e azzurro; Gabriele Federico Paparella: paradisi artificiali, trasgressione, assenzio, alcol, morte, la poesia forse potrà salvarci; Dario Ricci: buio, amore, ironia, ricordo – rifugio nel passato; Roberto Lonoce: amore – sogno tradito; Angelo Giuseppe Chirulli: terra natia, poesia corposa; Antonio Lonoce: amore, saggezza popolare, poesia dialettale; Giuseppe D’Ambrosio Angelillo: la Puglia, la natura – il mare, la mitologia greca; Aldo Ponticelli: l’amore libero, triste vita quotidiana; Giuseppe Antonio Conserva: tensione sublime, autodistruzione.
Il “Laboratorio Collettivo” è nato nell’inverno 2004. I ragazzi e i giovani (alcuni già laureati) che lo frequentano hanno insonorizzato una sala ed hanno allestito una sala prove nella quale suonano a turno una diecina di gruppi musicali, anche di paesi vicini; hanno allestito una sala artistica, dove vengono messi a disposizione tele e colori; hanno allestito anche una sala multimediale con connessione ADSL a disposizione di tutti. Stampano un periodico intitolato “La Quarta Stanza”; organizzano spettacoli musicali ed altri eventi culturali. Hanno messo su il gruppo musicale “Risonanze Folk”, che ha raggiunti ottimi livelli ed ha varcato i confini locali.

Verso dove - Numero 2 - 11 direzioni poertiche, Laboratorio Collettivo Edizioni, Lecce, febbraio - marzo 2007, pagg. 87