31 dicembre 2007

La Regina del Sud Maria Sofia, di Arrigo Petacco

Il duca in Baviera Massimiliano di Wittelsbach, che si trovava in vacanza a Montecarlo, quando nel 1858 la moglie Ludovica gli comunicò che aveva combinato il matrimonio della figlia Maria Sofia con il principe ereditario di Napoli Francesco di Borbone, scrisse in un telegramma alla figlia: «Te lo consiglio. E’ un imbecille». Maria Sofia, che allora aveva diciassette anni, credette che fosse uno dei soliti scherzi di suo padre.
Massimiliano, simpaticamente conosciuto in tutta la Baviera come il «buon duca Max», era bello, prestante, geniale, artistoide, esuberante e, naturalmente, un po’ matto, come tutti i Wittelsbach. Gran bevitore, gran giocatore, grande amatore aveva fondato a Monaco un circolo di mattacchioni detto della Tavola Rotanda. Scriveva poesie, opere teatrali e pubblicava articoli sui giornali con lo pseudonimo di Phantasius. Nessuno ha mai fatto la conta dei figli illegittimi disseminati in giro, ma furono certamente tanti.. Ma da buon marito ingravidava pure la legittima moglie Ludovica. Nell’arco di dicotto anni la rese madre otto volte.
Fra questi figli legittimi vi furono Elisabetta, detta «Sissi», la futura imperatrice d’Austria e Maria Sofia appunto, detta «Spatz», passerotto, nata il 4 ottobre 1841.
Max si curava poco dell’educazione scolastica dei figli, era invece molto esigente nella loro educazione fisica. E così «Sissi» divenne imbattibile a cavallo, e «Spatz» nel nuoto, nella scherma e nel tiro con la carabina. Maria Sofia amava i cani feroci ed allevava nidiate di canarini e di pappagalli; imparò anche a fumare quei sigari lunghi e sottili che fecero tanto scandalo nella bigotta corte di Napoli. Come scandalo suscitò «lo zompo», il tuffo, che ogni mattina d’estate la regina Maria Sofia faceva nelle allora limpidissime acque del porto militare.
Il matrimonio per procura di Francesco con Maria Sofia fu celebrato la sera dell’8 gennaio 1859 nella cappella del palazzo reale di Monaco. Lo sposo Francesco, che era assente, fu rappresentato dal principe Leopoldo, fratello di re Massimiliano. Gli sposi si incontrarono poi per la prima volta a Bari il 3 febbraio 1859. Maria Sofia rimase delusa dello sposo, a Francesco invece Maria Sofia apparve bellissima.
Scrive Arrigo Petacco di Francesco: «Le sue letture preferire erano le Vite dei Santi. Il suo svago, la raccolta di immagini sacre. A ventitré anni era ancora vergine e non gli era mai stato attribuito neppure un innocente flirt».
Le cose di sesso fra Maria Sofia e Francesco non andarono per niente bene. Pare che per consumare, avere il primo rapporto sessuale, dovettero aspettare il 1869, quand’erano ormai in esilio a Roma. Francesco finalmente si era convinto a farsi operare per liberarsi dalla fastidiosa fimosi al prepuzio che gli impediva l’erezione. La notte di Natale di quell’anno Maria Sofia diede alla luce una bambina, bella ma gracilina, alla quale fu dato il nome Cristina, che morì tre mesi dopo.
Maria Sofia però come frutto di un’appassionata relazione con il comandante degli zuavi pontifici, il conte belga Armand de Lawayss, aveva partorito il 24 novembre 1862 due gemelle, che le furono subito tolte ed affidate ad altri.
«Gli amanti attribuiti a Maria Sofia – scrive Petacco – raggiungeranno un numero così spropositato da diffondere persino il dubbio che la regina fosse ninfomane. In realtà forse era un tantino frigida. Ma essere corteggiata la divertiva».
Francesco II succedette sul trono del Regno delle due Sicilie al padre Ferdinando II, che era morto il 22 maggio 1859. Maria Sofia interpretò il ruolo di regina fuori da ogni etichetta.
In una famosa intervista che Maria Sofia, nella sua residenza di Monaco, rilasciò nell’ottobre 1924, all’età di 83 anni, all’inviato speciale del Corriere della Sera Giovanni Ansaldo, disse di Francesco II: «No, il mio re non fu imbecille… Come dicono». Francesco II, anche se timido, pauroso, sfuggente e impenetrabile, non era un imbecille come la storiografia risorgimentale ha sempre cercato di dipingerlo. Il vero problema del regno di Napoli non era il re, ma gli uomini che lo circondavano. I cortigiani e i generali erano quasi tutti ignoranti, incapaci, corrotti, cinici e pronti a tradire. Per salvare il trono le uniche iniziative serie tentò di prenderle Maria Sofia, ma non fu ascoltata.
«L’estate napoletana del 1860 fu l’estate della viltà, del trasformismo, del tradimento, degli inganni e del doppio e triplo gioco», scrive Arrigo Petacco. Il 6 settembre 1860 Francesco II e Maria Sofia, con quello che restava della corte, lasciarono Napoli per non ritornarvi più. Si rifugiarono a Gaeta. Qui Maria Sofia, durante i mesi di assedio da parte dei piemontesi, con il suo comportamento si guadagnò sul campo l’appellativo di «eroina di Gaeta». «Spericolata, amante del rischio – scrive Petacco – e, non dimentichiamolo, pervasa da quella vena di eroica follia che animava tutti i Wittelsbach, la giovane sovrana si muoveva fra soldati e cannoni come un pesce nell’acqua».
Ma il 13 febbraio 1861 anche Gaeta dovette capitolare. Francesco e Maria Sofia s’imbarcarono per Roma. Il regno di Napoli non esisteva più.
Gli anni che seguirono furono tutti vissuti da Maria Sofia nel vano tentativo di ritornare sul trono di Napoli prima, e di vendicarsi dei Savoia poi. «Tutti i nemici dei Savoia sono miei amici», diceva.
A Roma incontrò legittimisti e briganti. Chiavone, Crocco, Ninco Nanco, Fuoco, Guerra, Giordano furono tutti da lei ricevuti e per tutti aveva un sorriso ammirato e un amuleto portafortuna.
Poi Maria Sofia fu vicina agli anarchici. C’è chi sostiene che ebbe una qualche parte nel regicidio di Umberto I.
La regina Maria Sofia morì a Monaco il 18 gennaio 1925; avrebbe compiuto 84 anni il 4 ottobre. Ora è sepolta a Napoli nel Pantheon dei Borbone, la Basilica di Santa Chiara.
Rocco Biondi

Arrigo Petacco, La Regina del Sud – Amori e guerre segrete di Maria Sofia di Borbone, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1992, pp. 282

25 dicembre 2007

La Bibbia, la Cina e il Parmigiano Reggiano

Fra i mille miei sogni, che nei secoli futuri certamente realizzerò, vi è anche quello di collezionare Bibbie. La notizia pubblicata su la Repubblica di ieri ha suscitato quindi in me un grande interesse.
La Bibbia, la Cina ed il Parmigiano Reggiano sono tre cose che tra loro non ci azzeccano per niente. Ma la Repubblica di ieri 24 dicembre 2007 le ha unite felicemente insieme.
Il corrispondente da Pechino Federico Rampini ha scritto un lungo articolo su una nuova tipografia che è in costruzione vicino a Nanchino e che verrà inaugurata nel maggio 2008. Sarà uno stabilimento di 85.000 metri quadrati. «La tipografia – ha scritto un giornale di Hong Kong – è più larga della basilica di San Pietro». Specialità della tipografia è che stamperà Bibbie da esportare in tutto il mondo. Alla potenza economica della Cina atea non poteva sfuggire questo importante e fruttuoso settore economico.
La casa editrice Amity Printing, proprietaria della tipografia, ha già stampato, dalla sua nascita nel 1986, più di 50 milioni di Bibbie in 90 lingue straniere. Il nuovo impianto cinese sfornerà un milione di Bibbie nuove ogni mese, il 25% di tutta la produzione mondiale. In tempi non lontani la Bibbia in Cina era un libro proibito; la scoperta di una Bibbia in una casa poteva portare all’arresto e alla deportazione dell’intera famiglia. Ma il business è il business, l”Amity Press” può dormire sonni tranquilli; la sua fabbrica modello, con 600 dipendenti e le casse piene dei profitti provenienti dalle esportazioni, sarà trattata con il massimo rispetto dal regime di Pechino.
E nel mondo del business il Parmigiano Reggiano casca proprio come il formaggio sui maccheroni. Sulle 56 pagine de la Repubblica di ieri ben 37 (trentasette) contengono la pubblicità del Parmigiano Reggiano, con grande sfoggio di fantasia da parte dei pubblicitari. Sospetto che qualcosa non quadri. Ma forse sbaglio.

20 dicembre 2007

Memorie di un ex Capo-Brigante, di Ludwig Richard Zimmermann

Confesso che anch’io, come Erminio De Biase, quando lessi nella bibliografia de I Briganti di Sua Maestà di Michele Topa che il libro di Zimmermann del 1868 non era mai stato tradotto in italiano, ebbi un impulso ad attivarmi per farlo tradurre. Nello stesso tempo mi posi la domanda del perché finora non fosse stato ancora tradotto. Finita ora la lettura della traduzione curata da Erminio De Biase mi sono data la risposta che forse la mancata traduzione era dovuta al fatto che il libro non rende un buon servigio al brigantaggio meridionale postunitario.
Leitmotiv di tutte le Erinnerungen [Memorie] – come scrive anche De Biase nella nota introduttiva – è l’avversione del tedesco Zimmermann per Luigi Alonzi “Chiavone”, uno fra i più grandi “generali” dei Briganti. Si potrebbe quasi dire che il libro è stato scritto per parlare male di Chiavone. Viene descritto come vigliacco, vanaglorioso, incapace al comando. Ma così non è. Chiavone – scrive De Biase – non può essere un vigliacco come Zimmermann si ostina a definirlo per tutta la durata del racconto. «Luigi Alonzi doveva essere, per sua natura, sgusciante come un’anguilla e quella che Zimmermann insistentemente definisce vigliaccheria era, molto più probabilmente, un istintivo adattamento alle varie pretese del tedesco, un farlo “fesso e contento”, insomma».
La ruggine che c’è tra Chiavone e Zimmermann è frutto della incomprensione e competizione che c’erano in quegli anni fra i nativi guerriglieri “regolari” e i mercenari stranieri, entrambi combattenti contro i Savoia piemontesi e per il ritorno dei Borbone nell’ex Regno delle Due Sicilie. E Zimmermann era un mercenario. Quello che avveniva tra Zimmermann e Chiavone tra le montagne di Sora nel Lazio, succedeva anche tra Crocco e Borges in Basilicata. E furono proprio gli stranieri Tristany e Zimmermann, entrambi sospettati di essere doppiogiochisti e spie, a decretare la condanna a morte di Chiavone.
Ma se questo è Zimmermann perché leggere il suo libro? Perché – come dice De Biase – si ha l’opportunità di osservare i Briganti , oltre che nelle azioni di guerriglia, anche nel loro “quotidiano”: li vediamo marcire per giorni sotto la pioggia, correre per ore ed ore su piste accidentate, sfamarsi quando, come e dove possono e dissetarsi con neve sciolta.
Nella prefazione del libro Zimmermann dice di descrivere quello che lui stesso ha vissuto o quello che ha appreso da persone degne di fede, ma dice anche di condannare la sua scelta di allora di combattere insieme ai Briganti.
Suscita qualche dubbio la simpatia che Zimmermann nutre per Garibaldi. Nello stesso tempo però nutre grande stima e simpatia per i Briganti in genere. Scrive nella premessa alle Memorie: «Chi vuol trovare un punto luminoso nella torbida e sporca storia della fine del Regno di Napoli, deve volgere lo sguardo nelle foreste, sui monti della Maiella, della Meta, del Gargano e degli Abruzzi; là troverà ovunque tracce di sangue di fedeli e tenaci combattenti che abbandonarono i loro cari ed i loro paesi con l’arma in mano e la certezza nel cuore di vivere liberamente sotto il libero cielo di Dio, o di morire». E’ un po’ la retorica dei viaggiatori stranieri sulle orme dei Briganti e la giustificazione della sua scelta di diventare Brigante.
Una notazione interessante dello Zimmermann riguarda il ruolo che svolgevano i giornali dell’epoca. I Briganti – dice – non avevano giornali a loro disposizioni; con le loro brave “scoppette” riuscirono, per anni, a tener lontano le decine di migliaia di soldati del re piemontese, ma non i suoi scribacchini, che divulgavano in tutta l’Europa l’idea che i Briganti fossero dei banditi criminali. «Contrastare le innumerevoli bugie e le calunnie di quei pennivendoli è uno degli scopi primari di questo libro», scrive Zimmermann. Ma anche lui in tutto il libro non ha scherzato nel diffondere bugie e calunnie.
Tutto il libro è di piacevole lettura ed accattivante. Si apre con l’arrivo dello Zimmermann a Roma la sera del 29 agosto 1861, si prosegue con l’incontro con Chiavone sul Monte Favone che sovrasta Sora, con la descrizione del modo di vivere e di vestire dei Briganti, della biografia di Chiavone ovviamente negativa, del combattimento nel Bosco di San Silvestro del 10 settembre 1861, di battaglie contro i soldati francesi e piemontesi.
Un capitolo interessante è quello dove si descrive l’organizzazione della truppa di Chiavone, composta dallo Stato Maggiore e da otto compagnie. Lo Stato Maggiore era formato dal Comandante in capo Luigi Alonzi Chiavone, dal colonnello de Rivière, dal tenente colonnello di Kalkreuth, dal maggiore Zimmermann, dal capitano aiutante-maggiore Mattei, dagli alfieri Lecart e Danglais, dal chirurgo Agostino Serio, da ventuno guide. Le Compagnie erano composte da circa cinquanta uomini ciascuna, tutte capitanate da un comandante; in esse militavamo parigini, belgi, siciliani, tedeschi, napoletani, abruzzesi, molisani. «L’intera truppa contava, quindi, venti ufficiali, un medico, cinquantanove sottufficiali e caporali, sette trombettieri e trecentoquarantatre soldati, per un totale di quattrocentotrenta uomini».
Il 5 novembre 1861 viene preso Castelluccio. L'11 novembre 1861 Zimmermann rientra a Roma, dove sverna. A Roma passavano l’inverno molti capibriganti. Viene descritta la fine del generale Borges.
Il 6 aprile 1862 Zimmermann riparte da Roma per la seconda campagna fra i monti di Trisulti e di Roveto, Monte d’Ortica, Monte Favone, Monte Castello. Avviene il ricongiungimento con Tristany. Vengono descritti i sette giorni di fuoco dal 23 al 29 maggio 1862. Il 28 giugno 1862 Tristany e Zimmermann fecero fucilare Chiavone. «La mia missione in quei luoghi era, dunque, finita», scrive Zimmermann nell’ultima pagina del suo libro. E ritorna a Roma, per poi sbarcare a Venezia.
Rocco Biondi

Ludwig Richard Zimmermann, Memorie di un ex Capo-Brigante, traduzione note e commento di Erminio De Biase, Arte Tipografica Editrice, Napoli 2007, pp. 296, € 22,00

16 dicembre 2007

Brigantesse dell’Italia postunitaria - Convegno

Mercoledì 12 dicembre 2007, insieme agli amici Valentino Romano e Vito Nigro, ho partecipato al Convegno di studi sul tema “Brigantesse dell’Italia postunitaria”, che si è tenuto a Napoli nell’Antisala dei Baroni del Maschio Angioino.
Il Convegno era organizzato dal Laboratorio Antropologico del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università degli Studi di Salerno, diretto dal prof. Domenico Scafoglio.
Si sono susseguiti gli interventi di Amalia Signorelli, Rocco Brienza, Francesco Tassone, Nicoletta D’Arbitrio, Valentino Romano, Maria Rosaria Pelizzari, Simona De Luna, Annalisa Di Nuzzo, Anna Maria Fusilli, Vincenzo Padiglione.
Il tema delle brigantesse, presenti nelle bande che si opponevano a mano armata all’invasione dell’Italia meridionale da parte dei piemontesi negli anni successivi al 1860, ha suscitato un certo interesse fra gli studiosi del brigantaggio meridionale. Studi fondamentali sono stati pubblicati da Francamaria Trapani e da Maurizio Restivo; entrambi però limitati ad un piccolo numero di brigantesse. Ma è stato Valentino Romano che ha dato un sostanziale contributo fornendo notizie, tratte dagli archivi e dai verbali dei processi, su oltre mille brigantesse e fiancheggiatrici.
Gli interventi al convegno di Napoli hanno approfondito la ricerca sulle motivazioni che spinsero molte donne ad abbandonare una vita normale per darsi alla vita faticosa e pericolosa della macchia. Si è parlato dei rapporti intercorrenti fra briganti e brigantesse, delle leggi contro il brigantaggio con particolare riferimento allo specifico trattamento riservato nelle sentenze alle donne briganti, del ruolo svolto dalle donne meridionali nella rivolta contadina contro la conquista del sud da parte dei Savoia, dello specifico modo d’essere e vivere quotidiano delle brigantesse.
Il laboratorio antropologico dell’Università di Salerno ha pubblicato, a cura di Domenico Scafoglio e Simona De Luna, il risultato delle ricerche sulle brigantesse dell’Italia postunitaria in un volume dal titolo Le donne col fucile.
I lavori del convegno napoletano sono durati l’intera giornata. Nel pomeriggio è stato proiettato il film di Pasquale Squitieri Li chiamarono briganti.
Collateralmente al convegno è stata allestita una mostra dal titolo Per forza o per amore, che erano le due motivazioni ricorrenti che le brigantesse portavano a loro discolpa durante i processi.
Il cantastorie Otello Prefazio si è esibito nel recital A mia tutti mi chiamanu briganti.

Per forza o per amore