17 dicembre 2019

Quel lontano 1860, di Nemo Candido D’Amelio

Fatti e misfatti del 1860 (e anni seguenti), avvenuti in provincia di Foggia (e nel Sud in genere), sono narrati dall’avvocato Filetti e da Tata Rocco, con la proposizione di documenti, nella bottega di Teodoro il barbiere. In una cornice di fantasia sono presentati fatti e personaggi reali, attenendosi alle fonti di storia generale e locale (la Capitanata in modo particolare). Vengono spulciate le fonti documentarie in gran parte inedite dell’Archivio di Stato di Foggia e della Biblioteca comunale di San Severo (Foggia).
     Sono protagonisti del racconto i briganti, non intesi nella loro accezione negativa, ma quali partigiani e patrioti. Essi erano uomini del popolo. Gli ufficiali e gli uomini politici erano passati, nella grande maggioranza, dalla parte dei piemontesi per conservare i loro molti privilegi. Solo il clero, spogliato di tutti i beni, lottò dalla parte dei briganti. Nella sola provincia di Foggia ben 23.280 tra Enti e Corporazioni religiose, dice il D’Amelio, vennero accorpati nel primo quinquennio postunitario al demanio pubblico; conventi e palazzi del clero divennero stabili adibiti a pubblici uffici, a scuole e caserme. Il vescovo della diocesi di Foggia, monsignor Bernardino Maria Frascolla, lottò a favore di Francesco II. Ma venne a mancare un cardinal Ruffo, che con la sua autorità ed il suo prestigio, riuscisse a coalizzare tutte forze borboniche: preti, frati, baroni, lazzaroni, ex militari, ecc.
     Il Re e la Regina decisero di lasciare Napoli e tentare l’ultima resistenza a Gaeta, dove giunsero il 7 settembre 1860, nello stesso giorno che Garibaldi faceva il suo ingresso a Napoli atteso, tra gli altri, dal francescano Fra’ Pantaleo e dal celebre pittore di Foggia, Saverio Altamura.
     Liborio Romano, nato a Patù nel leccese, ministro dell’interno e capo della Polizia borbonica, aveva portato a termine con sfacciata ipocrisia il suo compito: consegnare il Regno delle Due Sicilie ai piemontesi.
     Garibaldi consegnò, a malincuore, al re piemontese Vittorio Emanuele II il regno di Napoli, nell’incontro avvenuto a Teano, o più precisamente a Caianiello. Garibaldi avrebbe voluto arrivare a Roma, per farla capitale d’Italia, ma gli fu impedito.
     Intanto era stato indetto nel Meridione per il 21 ottobre 1860 la farsa e il broglio del plebiscito. In pochi paesi del foggiano si poté votare nel giorno stabilito, per protesta e conseguenti disordini; si dovette attendere il ritorno della calma per portare la gente alle urne; ciò avvenne, per esempio, a S. Marco in Lamis, ad Ascoli Satriano, a Vico del Gargano. Nella Capitanata si ebbero a favore dell’unità 54.256 voti e 996 contro; non si può prestar fede a questi risultati.
     Nell’opera di repressione del brigantaggio nel foggiano troviamo un secondo Liborio Romano che cambiava casacca a seconda di dove tirava il vento ed era molto venale; ad accompagnarlo nella repressione vi fu il commissario della guardia nazionale Michele Cesare Rebecchi.
     Sangue, violenze e morti vi furono a San Giovanni Rotondo; capo dei ribelli briganti era Francesco Cascavilla. La stessa cosa avvenne a Vieste l’anno dopo ad opera di Giovanni e Alfonso Perone, che operavano per i piemontesi.
     Ad Accadia (Foggia) il 21 ottobre 1860, giorno del plebiscito, vi furono violenze e sangue con la registrazione di due morti. Vennero arrestate oltre cento persone, ma fra i processati e condannati vi fu solo povera gente, non vi fu nessun notabile.
     A Bovino il giorno del plebiscito fu alquanto calmo, ma vi era stata precedentemente, il 19 agosto, una rivolta popolare con occupazione di terre private e demaniali. Ricacciati a schioppettate, i rivoltosi incendiarono il Municipio, distruggendo pratiche e carteggio vario.
     I maggiori capobriganti che operarono nel foggiano furono Giuseppe Schiavone, Michele Caruso, con puntatine di Carmine Crocco, e la brigantessa Filomena De Marco (detta Pennacchio). È da precisare, dice D’Amelio (per bocca dell’avvocato Filetti), che in atri tempi la parola “brigante” non suonava offesa alcuna, perché ricordava la discesa nell’Italia Meridionale, nella seconda metà del ‘300, di mercenari svizzeri, che volgarmente venivano chiamati “briganti”.
     A contrastare i briganti fu mandato da Torino, fra gli altri, il generale Giorgio Pallavicino, che ordinava fucilazioni senza farsi scrupolo, ed ebbe a guida Giuseppe Caruso, rivelatore di tutte le astuzie, dei ricettacoli e delle amicizie brigantesche, un vecchio brigante della banda di Crocco.
     Successivamente il brigantaggio si tramutò in emigrazione, che divenne il dramma della Capitanata e dell’intero Meridione d’Italia; nel periodo che va dal 1865 al 1875, in media ogni anno ben 123.000 abbandonavano il territorio dell’ex Regno di Napoli.
     Il libro ha una parte seconda e terza, che contiene una serie di documenti, che vanno al di là del racconto e che sono proposti direttamente dall’autore D’Amelio, che parlano sempre della provincia di Foggia di quegli anni.

Nemo Candido D’Amelio, Quel lontano 1860, Editrice Daunia Agricola, Foggia 1989, pagg. 243