25 maggio 2020

Il barone contro, di Raffaele Vescera

Il barone don Felice nacque nel 1774 circa (aveva nella rivoluzione del ‘99 venticinque anni) e morì nel settembre 1828; visse quindi tra la fine del settecento e l’inizio dell’ottocento. Il barone Felice apparteneva alla famiglia Lombardo di San Chirico di Foggia, in Puglia, famiglia che visse tutte vicende rivoluzionarie del Regno di Napoli dal 1799, al 1820, al 1848, fino all’Unità d’Italia. Il romanzo storico rappresenta una saga di questa famiglia.
    Don Felice sposò due donne; trascurò la prima, di sette anni più grande di lui, adorò la seconda, di oltre vent’anni di lui più giovane, dandole quattro figli: tre femmine e l’ultimo un maschio. A Napoli frequentò i palazzi nobiliari e i salotti intellettuali, non disdegnando le taverne di strada, dove accontentava la passione per il gioco d’azzardo. Fu colonnello e liberale, ragione quest’ultima per cui il re lo destituì, esiliandolo in terra straniera. Riebbe il grado militare e comandò l’Accademia militare della Nunziatella; poi fu di nuovo radiato. A Napoli esaudì in qualche modo la sua vocazione per l’arte musicale.
    Ebbe a che a fare con i briganti, dei quali diceva che erano malvagi, ma diceva anche di averne incontrati di gentili e colti. Uomini che si erano dati alla macchia per sfuggire a un’ingiustizia. In Capitanata ve n’era uno famoso, Gaetano Vardarello, che con i suoi fratelli aveva costituito una comitiva di cinquanta uomini, che non fu mai battuto sul campo dall’esercito. Egli distribuiva ai poveri pane e latte, dandone doppia razione alle donne incinte. Per debellare il brigantaggio, bisognava dare a tutti la possibilità di vivere una vita dignitosa; il crimine spesso è figlio dell’ingiustizia. Morì tradito da alcuni paesani.
    L’autore del romanzo, Vescera, per bocca dei suoi personaggi, si domanda se fosse stato meglio rimanere con i Borbone, anziché passare sotto i piemontesi che promettevano solo a parole la libertà. Ma il re borbone Francesco non aveva alcuna aspirazione a diventare il re d’Italia. I Savoia, che erano più francesi che italiani, erano più conservatori e non erano abituati alla raffinata cultura dei Borbone.
    Felice Carmine, detto Felicino per distinguerlo dal padre, nei moti del ‘48, pur parteggiando per la costituzione si tenne fuori dai tumulti. Ferdinando II fu detto il re bomba, per via dei cannoneggiamenti contro Messina, ultima città ad arrendersi.
    Morto Ferdinando II, gli successe sul trono il figlio Francesco. L’inesperienza e la mitezza del re Francesco convinsero suo cugino, il re piemontese Vittorio Emanuele, ad invadere il Regno delle Due Sicilie. Invasione che riuscì per l’appoggio della massoneria e dei molti ufficiali e militari borbonici, che si lasciarono corrompere. Ai contadini fu sparsa la voce che i piemontesi avrebbero distribuito le terre incolte.
    Il re Francesco, per evitare la distruzione della città di Napoli, la lasciò nelle mani dell’ambiguo Liborio Romano e si rifugiò nella fortezza di Gaeta da cui organizzò la controffensiva militare.
    Don Felicino festeggiò con gli amici liberali il nuovo corso politico. Ma presto si rese conto che nella storia del Mezzogiorno accadde quanto non era mai successo. Furono smantellate e portate al nord industrie, ferriere, ferrovie, tessili, e fucilati quanti si opponevano a tale scippo da parte di 140.000 uomini ben armati. Alcuni milioni di Meridionali dovettero emigrare nelle Americhe, nel nord d’Italia e d’Europa. Tutto peggiorò e andò in malora negli anni successivi, lo Stato Italiano diede sempre meno al Sud rispetto al nord.
Rocco Biondi

Raffaele Vescera, Il barone contro. Don Felice e gli altri Signori di San Chirico tra Borbone e Savoia, Magenes Editoriale, Milano 2014, pp. 306

16 maggio 2020

II grassiere, di Raffaele Nigro

Il libro ripropone un’edizione fuori commercio allestita in occasione della rappresentazione del “Grassiere”, prima opera teatrale di Nigro, composta nel 1980 e messa in scena nel 1981. Il lavoro linguistico (già sperimentato in “Giocodoca”) contribuisce a realizzare la fertile contaminazione tra storia e fantasia, che contrassegna gran parte dell’opera di Nigro.
    Aldo De Jaco nella prefazione scrive che il brigante non sarà solo il rappresentante di un’epoca ma incarnerà un atteggiamento di perenne rivolta, che rappresenta la sofferenza e l’oppressione del vivere dei poveri. Il brigante tradirà e taglieggerà e Filomena che è lo spirito della rivolta e della speranza resterà sola.
    Nel primo tempo si narra che il grassiere, l’uomo delle tasse, messo nel Regno delle Due Sicilie dagli spagnoli, sembra morto ad opera di Filomena che gli ha ficcato lo spillone nel cuore ed è sicura di averlo ucciso; ma così non è, perché il grassiere è come l’aria, senza faccia, senza occhi, senza mani. Crocco è accusato dal magistrato di furti aggravati, sequestri, rapine, omicidi, estorsioni, e si difende dicendo che lui è il ragazzo che il padrone fa arrestare dai gendarmi per piccoli furti fatti per sfamarsi.
Nel secondo tempo si parla, tra l’altro, dell’amore di Crocco e Caruso nei confronti di Filomena e di come Crocco la lascia Caruso.
    Nell’intermezzo Caruso giustifica la sua scelta di passare con i piemontesi perché vuole cambiarli da dentro le loro mura e non da fuori, dalla finestra, come fanno i briganti. Il paese aveva bisogno di strade, scuole, ci volevano leggi nuove, e per avere tutte queste cose bisognava entrare in amicizia con questa gente nuova, questi vincitori, entrare dentro il parlamento, comandare insieme a loro. Il fucile non poteva rispondere a tutte queste necessità.
    Nel terzo tempo si assiste ad una vittoria di Crocco. Nel palazzo vescovile si riuniscono il vescovo, il sindaco, il barone, il capitano Borges, insieme a Crocco ed alcuni suoi briganti. Il barone don Ferdinando sponsorizza Borges. Crocco afferma che dopo aver cacciato i piemontesi caccerà pure i borboni.
    Nel congedo finale vien fuori il prosaico compromesso di Pulcinella e Filomena che non cede e i briganti che diventano immortali come il grassiere; anche se i briganti cadranno si rialzeranno: «’nzime si vince o se more briand».
    L’opera si chiude con l’appello di Filomena e i briganti che gridano: «Siamo qua Filomena. Qua, insieme a te...».
    Leonardo Mancino chiude così la sua postfazione: «La poesia è arma contro l’omologazione, contro la repressione e contro l’afasia. L’appello di Filumena ai briganti esce così dal perimetro di un teatro per legittimarsi grido per uno e per i tanti momenti di storia».
Rocco Biondi

Raffaele Nigro, Il grassiere, briganti in scena, Schena editore, Fasano (Br) 1992, pp. 110

10 maggio 2020

Amori e delitti dei briganti Cipriano e Giona La Gala, di F. Mastriani

Il libro porta come autore Francesco Mastriani, ma in realtà si tratta di Filippo, figlio di Francesco. Approfittando infatti che ambedue iniziano il nome con F., molti editori e stampatori napoletani usarono il nome Francesco, ormai famoso, per attribuirne libri e romanzi. Un’attenta lettura del romanzo, dice Concetta Sabbatino, fa attribuire il romanzo a Filippo. 
   Trattandosi di un romanzo non sempre i fatti narrati corrispondono a quelli della vita reale.
   Il primo atto della vita brigantesca di Cipriano, secondo il romanzo, fu l’uccisione di una fanciulla, di nome Elisabetta, che aveva tradito il suo amore. Poi uccise anche Lorenzo con cui lo tradiva.
    A questi due primi delitti tenne dietro una sequela di misfatti: grassazioni, rapine, estorsioni, mutilazioni, omicidi; quasi tutti dell’anno 1861. L’autore Mastriani sembra discolpare da tutti questi misfatti Cipriano, «non comparendo mai né come esecutore materiale, né come mandatario, né come istigatore», addossandone la colpa ad altri briganti, specialmente a suo fratello Giona «belva sotto l’apparenza di uomo»; ma in realtà riconoscendo in lui «una strana miscela di ingredienti contraddittori, cioè coraggio e viltà, ardire e prudenza, scaltrezza e pusillanimità, autorità e soggezione». L’avvocato Cecaro, nella sua lunga difesa, dimostrerà come Cipriano si ponesse dietro le quinte.
    Seguono poi nel romanzo le narrazioni degli omicidi dei carabinieri Cuminelli e Brocchieri, la libertà che Cipriano diede ai soldati che avevano combattuto in quaranta contro trecento briganti, come Cipriano sfuggì al carnefice fingendosi morto, l’uccisione del giovane Luigi Savoia tenente della Gurdia Nazionale, le fiamme che avvolsero un banchiere dopo che Cipriano le salvò la figlia, l’atroce assassinio del De Cesare che aveva fatto un torto a Giona nel carcere, l’uccisione del vecchio prete Viscusi.
    Cipriano, insieme ad altri quattro briganti, fu arrestato dal questore di Genova a bordo del piroscafo francese l’Aunis. Ne nacque un caso diplomatico con i francesi, che in qualche modo proteggevano i briganti. Nel contempo Cipriano e Giona, evasi dalle prigioni erano comparsi, con una numerosissima banda, sulle montagne del Taburno.
    Ma Cipriano e i suoi furono vittime di una donna. Questa, diciottenne, su consiglio del padre che volle intascare il vistoso premio, si offrì al capo-brigante e divenne la sua amante. Fino a quando Cipriano, in occasione del suo onomastico, volle offrire alla sua comitiva un sontuosa cena. La donna disse che avrebbe messo a disposizione una botte del vino migliore del padre, vinaio; ma dopo avervi versato dentro una buona quantità di oppio, che fece addormentare tutti, Cipriano e i suoi compagni, dopo aver digerito il narcotico, si trovarono legati nel fondo di una prigione.
    Cipriano e il fratello Giona furono condannati, dalla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, alla pena di morte, Domenico Papa ai lavori forzati a vita, Giovanni d’Avanzo a venti anni di lavori forzati.
    Cipriano La Gala, secondo il romanzo, morì da eroe, guardando in faccia la morte; mentre in realtà morì in carcere, essendo stata mutata la sua pena ai lavori forzati a vita.
Rocco Biondi

Francesco Mastriani, Amori e delitti dei briganti Cipriano e Giona La Gala. Romanzo storico del brigantaggio, Imagaenaria Edizioni, Ischia 2004, pp. 270