14 marzo 2018

Terra promessa, briganti e migranti, di Baliani, Cappa, Maglietta


Anche il teatro si è interessato del brigantaggio. Il libro “Terra promessa, briganti e migranti” di Marco Baliani, Felice Cappa e Maria Maglietta ne è un esempio. È il testo teatrale di uno spettacolo sul capobrigante Carmine Crocco, presentato da tre introduzioni dei tre autori.
     Felice Cappa, nato a Rionero in Vulture (Potenza) nel 1963 e poi con la famiglia trasferitosi a Torino, trascorre le vacanze scolastiche estive nel suo paese natio e ascolta storie e leggende di briganti. Tra queste, quella di Carmine Crocco. Cappa, divenuto giornalista, autore televisivo e regista, propone a Marco Baliani e Maria Maglietta di lavorare sul capobrigante Crocco, che rappresenta ancora oggi per tutto il Sud l’altra faccia dell’Unità. Il lavoro comincia con un viaggio nel Sud, nei luoghi dove briganti, brigantesse, cafoni, galantuomini, bersaglieri sono realmente vissuti. Viene effettuata anche una laboriosa ricerca delle fonti dirette: «diari, verbali e sentenze di processi, relazioni dei prefetti, comunicazioni della Guardia Nazionale, sedute dei consigli comunali, lettere, telegrammi e dispacci militari, immagini di graffiti scavati sul tufo e le terribili foto che si facevano scattare i soldati piemontesi con i briganti morti, immagini oscene come trofei di caccia».
     Marco Baliani, attore, drammaturgo e regista teatrale, nato in Piemonte a Verbania sul lago Maggiore nel 1950, nella sua introduzione, parla del teatro civile, impegnato, politico, ma è contrario alla semplice elencazione di informazioni, senza la ricerca di una nuova forma narrativa; non si deve informare senza formare. La verità di una storia – scrive – non ha nulla a che fare con la quantità di realtà in essa contenuta. Questo teatro non deve trasformare lo spettatore in uno scolaro da istruire, ma in una coscienza da formare.
     Maria Maglietta, attrice teatrale, drammaturga e regista, nata in Basilicata a Laurenzana provincia di Potenza nel 1952, sostiene che compito del teatro non è di raccontare la Storia ma far capire meglio la realtà che ci circonda; infatti le necessità della Storia e quelle del Teatro scorrono su canali diversi. All’inizio ci si cala nella vicenda storica, ma poi è necessario creare una distanza dagli elementi storici scavando nelle loro pieghe, facendo rivivere sotto diversa luce eventi apparentemente marginali, ma capaci di restituire l’essenza e la concretezza di un conflitto.
     Nel caso di “Terra Promessa” i tre autori concepiscono di fare un viaggio attraverso i luoghi che videro agire il brigante Carmine Crocco negli anni che vanno dal 1860 al 1865; vengono scelti alcuni episodi significativi.
     Vien scelta la nuova forma del teatro di narrazione.
     I personaggi sono il Narratore, il Popolano, il Barone, la Popolana, il Bersagliere.
     Gli episodi che vengono narrati sono un sequestro, lo sbarco di Garibaldi a Marsala, la battaglia del Volturno, le prigioni di Fenestrelle, il plebiscito di annessione del Sud, i galantuomini (Fortunato di Rionero, Aquilecchia di Melfi, Rapolla di Atella, Corbo di Avigliano) che aiutano i briganti, l’assalto di Venosa, l’accoglimento trionfale di Crocco a Melfi, la vittoria dei briganti di Crocco a Toppacivita, l’illusione del generale spagnolo Borges, la fuga al ponte Canastrelli dopo aver perso quello di Leonessa, il tradimento di Caruso, la morte di Crocco a 75 anni nel carcere di Portoferraio.
     Salvo poche eccezioni, i contadini erano tutti dalla parte dei briganti. Finito nel sangue il sogno disperato della rivolta, ai contadini non è rimasto che divenire emigranti; e dal 1865 al 1905 otto milioni emigrano in cerca di una terra promessa.
     I popolani e i bersaglieri parlano con termini e inflessioni dialettali. I personaggi si esprimono mescolando sonorità di una più vasta area geografica del meridione o del nord. Tale linguaggio è trascritto foneticamente nell’intento di facilitarne la lettura e la comprensione.
     Lo spettacolo “Terra Promessa” viene interpretato dagli autori, e da altri attori, in varie parti d’Italia.
Rocco Biondi

Marco Baliani, Felice Cappa, Maria Maglietta, Terra promessa, briganti e migranti, CalicEditori, Rionero in Vulture (Pz) 2011, pp. 128

9 marzo 2018

L’ultimo brigante del sud, di Gabriele Scarpa



Si tratta di un servizio giornalistico, un po’ romanzato, fatto da un immaginario giornalista intervistando, nell’estate del 1864, il brigante Antonio Cozzolino, detto Pilone, che fu ucciso dai piemontesi dopo un decennio di attività sulle falde del Vesuvio. L’intervista segue la vita reale del brigante.
     Pilone era nato a Torre Annunziata (Napoli) nel 1824, ma sin da ragazzo si era trasferito a Boscotrecase (Napoli), il paese dei genitori. Il padre faceva lo scalpellino lavorando la pietra del Vesuvio. Antonio imparò quel mestiere.
     Era soprannominato “Pilone” perché «mamma mi ha fatto pieno di peli», disse sorridendo al giornalista, accarezzandosi la lunga barba incolta.
     Entrò a far parte dell’esercito napoletano di Ferdinando II. «Vitto, paga e rispetto erano garantiti. E poi: altro che spaccare pietre!»
     Il primo servizio militare lo prestò a Nocera.
     Nel 1842 fu trasferito in Calabria. Lì combatté contro i banditi. «I banditi veri – dice Pilone – sono quelli che ci hanno assalito conquistando le nostre terre, stuprando le nostre donne, bruciando le nostre case, riducendo in cenere i nostri raccolti e uccidendo i nostri figli, i nostri fratelli, i nostri genitori. Sono quelli i fuorilegge e criminali. Noi siamo brava gente che lotta per riportare il re di Napoli sul trono che fu dei suoi padri».
     Pilone aveva invidiato ed emulato il brigante Giosafatte Talarico. «Ma lui aveva scelto di stare dalla parte sbagliata, contro i Borbone». Fino a quando non si consegnò ai borbonici, accettando una ricca pensione e una bella villa in riva al porto di Ischia.
     Pilone dopo cinque anni si congedò dall’esercito. Ma nel settembre 1847 tornò ad indossare con piacere la divisa dei Cacciatori borbonici, finendo a Reggio Calabria.
     Nel 1848 è a Napoli, a sparare contro i ribelli. L’anno successivo fu spedito prima a Gaeta e poi a Velletri. Fu congedato per la seconda volta. Ma riarruolato fu mandato in Sicilia. Congedato per la terza volta, decise di rimanere in Sicilia. Qui arruolato per la terza volta combatté, nel 1860, contro Garibaldi a Calatafimi. Sembrava esserci stata una vittoria borbonica, ma il generale Landi tradì e i borbonici furono costretti a ritirarsi.
     A Napoli nel 1861 Pilone entrò a far parte del Comitato borbonico; non accettò la leva savoiarda e cominciò la sua seconda vita: quella del brigante.
     Inizialmente entrò nella banda di Vincenzo Barone, dopo la morte del quale per tradimento, divenne il capo. Nel frattempo i piemontesi gli uccisero il padre e la madre, che morirono abbracciati. Erano stati condannati a morte solo perché erano i genitori di un brigante. E Cozzolino dichiarò vendetta: «Canaglie! Bruti e assassini! L’avrebbero pagata cara».
     «I soldati, convinti di averci chiusi in trappola, ci cascarono praticamente in bocca. Aprimmo il fuoco e li decimammo, colpendoli uno alla volta, tra gli alberi e i canaloni, le creste di lava e i muretti a secco costruiti dai contadini per riparare le loro terre dagli scrosci dell’acqua piovana», racconta Pilone al giornalista.
     I briganti, forti di quella vittoria, decisero l’invasione di Boscotrecase. Ivi entrati, colpirono con i loro moschetti i quadri di Vittorio Emanuele e la bandiera tricolore, facendo tornare a sventolare, sulle terrazze del Vulcano, la bandiera con il giglio dei Borbone.
     Invadono anche a Torre del Greco la casa di Leopardi, la “Villa Le Ginestre”.
     Nel febbraio del 1862 i briganti di Pilone tentarono il colpo grosso. Il generale piemontese Alfonso La Marmora, da poco nominato prefetto di Napoli e che aveva quindi sostituito Enrico Cialdini nella repressione del “brigantaggio”, sarebbe giunto in visita al villaggio di Pompei. «Era l’occasione che stavamo cercando», disse Pilone al suo intervistatore. «Giunta a tiro la carrozza, iniziammo a bersagliarla di piombo». I piemontesi si serrarono a quadrato per difendere La Marmora e spararono violentemente. Ma i briganti riuscirono a fuggire.
     L’eco dell’agguato a La Marmora si diffuse rapidamente in tutto il circondario. E questo costituì pubblicità gratuita per la causa dei briganti. Molti volontari si aggregarono alla banda. Anche la duchessa di Genova, cognata di Vittorio Emanuele di Savoia, giunta a Napoli con tanta spavalderia, se ne tornò in Liguria con la coda fra le gambe.
     Nel marzo 1862 i briganti di Pilone assaltarono Terzigno, che però non fu liberata facilmente. E sul tetto del Comune la bandiera borbonica non rimase che per poche ore. La retata piemontese fu rapida e spietata. Molti furono arrestati, «a decine finirono in guardina. Poveracci beccati così, a casaccio. Senza colpa».
     Nel 1863 furono fatti, a scopo di riscatto, diversi sequestri illustri: il marchese Diego Avitabile, l’erede al trono principe Umberto di Savoia, «tra Agerola e Gragnano diventammo gli esattori del Regno delle Due Sicilie esautorando i nuovi gabellieri di Torino».
     Alla vista di un drappello di bersaglieri, i briganti di Pilone fuggirono, lasciando soli il giornalista e il fotografo.
     L’articolo fu pubblicato sul Corriere, parlando male del brigante Cozzolino. Dice il giornalista, che narra nel libro in prima persona l’incontro con il brigante: «Non ho scritto quello che pensavo. Ho scritto quello che mi dettava la linea editoriale». Ma preso da scrupoli di coscienza, si dimette dal Corriere e non scriverà più per nessun altro giornale. Divenne insegnante.
     Dopo sette anni dall’intervista del 1864 l’ex giornalista ritorna a Boscotrecase, in cerca di notizie sul brigante Pilone. Il brigante era stato esule prima a Roma e poi a Marsiglia. Sul vaporetto che lo portava in quest’ultima città conobbe Carmine Crocco e Bernardino Viola. Il rifugiato politico Cozzolino fu riaccompagnato a Roma, dove fu rinchiuso nelle carceri pontificie di Tivoli. Il 6 marzo 1869 fu fatto evadere insieme al brigante marsicano Bernardo Viola.
     Nella primavera del 1869 Pilone tornò sul Vesuvio, ma si ritrovò praticamente solo, spalleggiato da pochi fedelissimi. Per quasi un anno riuscì a sottrarsi alla caccia di soldati e carabinieri. Ma poi la camorra decise di toglierlo di mezzo.
     Dopo la presa di Roma da parte dei piemontesi, Antonio Cozzolino detto Pilone fu tradito da uno dei suoi uomini. Cadde in trappola e fu ucciso il 14 ottobre 1870.
     Quella di Cozzolino, come quella dei briganti, fu lotta armata non malavita.
     Il libro di Gabriele Scarpa si chiude con queste frasi, che condividiamo: «Oggi non c’è spazio per la verità. La storia, quella tocca ai vincitori. A fare giustizia dovranno pensarci i posteri, quando le nebbie della menzogna si saranno sollevate dai campi insanguinati del Mezzogiorno».
     Il libro reca l’introduzione di Gennaro De Crescenzo, la prefazione di Lorenzo Del Boca, la postfazione di Alessandro Romano.
Rocco Biondi

Gabriele Scarpa, L’ultimo brigante del sud. Storia della banda Pilone, Spazio Creativo Edizioni, Napoli 2011, pp. 152