25 luglio 2017

Brigantaggio e rivolta di classe, di Di Brango e Romano



L’idea del libro – scrive Enzo Ciconte nell’introduzione – è quella di leggere il brigantaggio alla luce degli insegnamenti di Karl Marx. Il brigantaggio è stato un fenomeno che esprimeva una rivolta di classe le cui radici si trovano nelle condizioni materiali e sociali dei contadini, nel loro disperato bisogno di terra, sempre traditi e ingannati dai nobili, dagli agrari, dagli usurpatori. Ed i contadini non sono più disposti ad accettare tale situazione e danno mano alla rivolta. Il brigantaggio – conclude l’introduzione Ciconte sintetizzando il libro – non fu un fenomeno criminale, di assassini e di delinquenti, di barbari cafoni assetati di sangue, ma un fenomeno sociale e di classe.
     Il “ritorno a Marx” sta avvenendo nelle università degli Stati Uniti (vedi quelle del Michigan, Massachusetts, California) dove vengono istituite cattedre di marxismo, mentre in Italia lo si è liquidato come morto con la scomparsa del Pci. Nel presente saggio si tenta anche di superare un limite presente nella evoluzione gramsciana: non si vuol privilegiare l’operaio rispetto al contadino.
     In questa lotta di classe assume un ruolo importante l’odio. L’odio di classe esercitato non solo dalla classe subalterna contro la classe dirigente, ma anche e soprattutto in senso contrario. Pontelandolfo, Casalduni, Campolattaro e altre decine di paesi rasi al suolo, - scrivono gli autori -  con le popolazioni massacrate e annientate dalle truppe piemontesi, non furono forme estreme di giustizia, ma libero esercizio dell’odio di classe.
     Quello che avvenne a Marzabotto, ottant’anni dopo, era già stato sperimentato dai Savoia nel Mezzogiorno d’Italia. Questo che scrivono Di Brango e Romano, lo avevano già scritto altri. In bibliografia i due autori citano opere che sono funzionali al loro assunto.
     Non si deve però credere, si legge nel libro, che nel Meridione d’Italia, quando vennero i piemontesi, esistesse solo l’agricoltura; fiorente era anche l’industria; come esempio vengono riportate ed analizzate le Ferriere di Mongiana in Calabria e le Officine di Pietrarsa vicino Napoli. Sia le une che le altre vennero progressivamente chiuse, per non consentire più al Sud di “intraprendere”, per dirla con le parole di Carlo Bombrini, primo presidente della neonata Banca d’Italia.
     Ma il mondo contadino, animato dall’ansia di riscatto e di riappropriazione delle terre, è in rivolta nella Calabria silana, negli Abruzzi, nel Cilento, nella Daunia, nel Beneventano, in Terra di Bari, in Irpinia, nel Sannio, in Sicilia e nella Basilicata. In quasi tutto l’ex Regno delle Due Sicilie fioriscono l’insorgenza contadina ed il brigantaggio, che hanno come obiettivo di fondo: combattere la fame, condurre un’esistenza decorosa, riappropriarsi della dignità del proprio lavoro.
     Nell’ambito della più generale guerra civile tra italiani del Sud e italiani del nord, nel Sud e per il Sud si combattono due specie di guerre: quella di Crocco (e di tutti gli altri briganti) e quella del legittimista José Borges; la prima in difesa dei contadini stessi e dei subalterni tutti, la seconda per riportare il re Francesco II sul suo trono.
     Nella prima guerra si inserisce quella avvenuta a Palermo nel 1766, la rivolta cosiddetta del “sette e mezzo” (durò infatti sette giorni e mezzo). Fu la sollevazione popolare avvenuta dal 15 al 22 settembre 1866. Per sedare la rivolta furono mandati circa 40.000 (quarantamila) soldati. Fu anche bombardata la città
     Un capitolo del libro è dedicato alle brigantesse, che furono presenti massicciamente e direttamente nella rivolta contadina postunitaria; durante la durata di questa guerra le differenze di genere si assottigliarono sensibilmente, sottraendo così l’esclusiva di avanguardia al sesso maschile.
     Alla domanda, posta da Franco Molfese, se fosse stato possibile evitare tantissimi morti, provocati dal brigantaggio contadino e dalla repressione statale, Enzo Di Brango e Valentino Romano nel loro libro rispondono: «Sicuramente sì, se solo alle istanze di classe si fosse risposto con una politica di riforme che le esaudisse. Ma non si è fatto, e questo pesa ancora nelle coscienze, nei destini e sul progresso della nazione».

Enzo Di Brango - Valentino Romano, Brigantaggio e rivolta di classe. Le radici sociali di una guerra contadina, introduzione di Enzo Ciconte, Nova Delphi, Roma 2017, pp. 260

1 luglio 2017

Briganti!, di Gigi Di Fiore



«Questo libro non è un trattato sul brigantaggio, ma un insieme di storie documentate raccontate in forma narrativa, attingendo a più fonti», scrive Gigi Di Fiore nell’introduzione. Per capire bene le caratteristiche della guerra contadina l’autore riporta essenzialmente tre vicende esemplificative sugli obiettivi dei briganti e sui metodi repressivi dei piemontesi. Si tratta delle vite e delle esperienze di tre capibriganti: Carmine Crocco in Basilicata, Cosimo Giordano nel Molise e Campania, Pasquale Romano in Puglia. E di altri capibriganti e briganti, che in qualche modo hanno avuto a che fare con i suddetti capi.
     I briganti oggi vengono assumendo una connotazione positiva contro la criminalizzazione con cui li ha sempre descritti la storiografia ufficiale. Il brigantaggio è stato contemporaneamente una rivolta sociale contro i “Gattopardi” del Sud (che volevano che tutto cambiasse, affinché tutto restasse come prima) e una rivolta contro lo Stato piemontese calato dall’alto (che sostituisce lo Stato borbonico, che comunque veniva sentito più vicino).
     Se non esisteva una coscienza di classe nei briganti-contadini, vi era però consapevolezza di interessi economici coincidenti fra la borghesia latifondista meridionale e fra gli imprenditori dell’industria e della finanza settentrionali. L’Italia, unita politicamente a fatica, fu divisa giuridicamente fra Centro-nord con le garanzie della Costituzione albertina e Sud con il regime dei tribunali militari che potevano disporre della vita o della morte dei ribelli.
     La parola “brigante” è diventata nel Sud sinonimo di ribellione, di protesta, di anticonformismo culturale. La figura del brigante, scrive ancora Di Fiore, è diventata simbolo esibito della cultura di sinistra che si richiama alle letture gramsciane.
     Di Fiore scrive che prova un particolare coinvolgimento emotivo nel rievocare le storie del brigantaggio postunitario. Storie che fanno parte dell’identità del Mezzogiorno. Senza conoscerle ben poco si comprenderà del Sud.
     Carmine Crocco, con la sua storia, non fa più paura. Nel Sud la voglia di raccontarlo è diventata patrimonio diffuso. Nato, nel giugno 1830, a Rionero sul Vulture in Basilicata, era stato bracciante e vaccaro, poi caporale borbonico e anche garibaldino. Nei momenti migliori, da capobrigante aveva avuto ai suoi ordini fino a 2.000 uomini. Divise la sua grande banda in tante bande più piccole, guidate da un capobrigante che dava il nome al singolo gruppo. Ogni banda conservava un minimo di autonomia, anche se tutte dipendevano formalmente dal rappresentante del Comitato borbonico di Roma, il francese Langlois. Ma il vero comando fu lasciato a Crocco. Assaltò e conquistò Ripacandita, Venosa, Lavello, Melfi, Monteverde, Calitri, Pescopagano, Sant’Andrea di Conza, Ruvo del Monte, Toppacivita, Rapone, San Fele, Atella. Quelle conquiste purtroppo duravano pochi giorni. Quei paesi venivano riconquistati dai soldati piemontesi.
     I Comitati borbonici pensarono di affidare il comando dei briganti al generale spagnolo José Borges [Di Fiore scrive Borjes, come si trova nella maggioranza dei libri; noi scriviamo Borges, come il generale si firmava]. Borges e Crocco si incontrarono, ma fra i due non vi fu mai vera intesa; avevano scarsa considerazione l’uno dell’altro. E consideravano in modo differente la lotta che si stava svolgendo: rivolta sociale e guerriglia da parte di Crocco, guerra di resistenza e difesa di una Nazione conquistata da un’altra da parte di Borges. Fu deciso comunque di prendere Potenza; ma non se ne fece niente. Borges diede la colpa a Crocco per questa mancata presa. Crocco invece diede tutta la colpa ai traditori interni esistenti fra le mura di Potenza.
     Per questi contrasti Borges decise di abbandonare l’impresa e ritornare a Roma, per riferire a Francesco II. Ma fu sorpreso dai piemontesi a Tagliacozzo in Abruzzo, con i suoi ventitré uomini, ad appena dieci chilometri di distanza dal confine con lo Stato Pontificio. Vennero fucilati, senza processo, nel centro di Tagliacozzo, l’8 dicembre 1861. Carlo Alianello e Andrea Camilleri hanno creduto alla suggestiva interpretazione che Crocco offrì la testa di Borges in cambio della sua futura salvezza. Noi non lo crediamo. Crocco morì in carcere a Portoferraio, nell’isola d’Elba, il 18 giugno 1905, all’età di 75 anni.
     La figura di Crocco, rimossa per pochi anni, riemerse nel secondo dopoguerra del secolo scorso. Carlo Alianello ne parlò nel suo romanzo L’eredità della priora, da cui fu tratto l’omonimo sceneggiato televisivo in sette puntate. Sulla storia di Crocco, a Brindisi di Montagna in Basilicata, ogni anno viene rappresentato lo spettacolo La storia bandita. Diversi film sono stati girati su Crocco. In pratica quello che nell’Italia risorgimentale veniva considerato un criminale è stato trasformato in eroe positivo.
     L’eccidio di Pontelandolfo e Casalduni è legato al capobrigante Cosimo Giordano, nato a Cerreto Sannita in provincia di Benevento (Campania) il 15 ottobre 1839. Fu arruolato nei carabinieri a cavallo dell’esercito borbonico e divenne caporale. Dopo lo scioglimento di quest’ultimo esercito, per due volte fu ritenuto rivedibile per l’esercito piemontese. La terza volta decise di non presentarsi, divenne disertore e brigante. Raccolse attorno a sé una settantina di uomini, che divise in quattro brigate. In molti paesi, praticando la pratica del mordi e fuggi della guerriglia, in poche ore si avvicendavano briganti del Sud e soldati piemontesi. Nel 1861 i piemontesi effettuarono molte rappresaglie; furono di una cinica ferocia quelle guidate dal tenente colonnello Pier Eleonoro Negri. A Pietralcina Negri si dimostrò implacabile, furono rastrellate quaranta persone, che senza processo furono fucilate. In questo clima surriscaldato maturò l’uccisione dei quarantuno piemontesi, comandati dal tenente livornese Cesare Augusto Bracci. Cosimo Giordano conosceva quei luoghi, dove poteva contare su diversi appoggi. Il Bracci si dimostrò uno sprovveduto, lasciandosi imbottigliare tra due fuochi. Pare che Giordano non prese parte a quell’uccisione dell’11 agosto 1861 a Pontelandolfo, dove rimasero morti, oltre al tenente Bracci, quattro carabinieri e trentasei soldati piemontesi. Il generale Enrico Cialdini, allora luogotenente a Napoli, ordinò subito una rappresaglia a Negri contro Pontelandolfo e al maggiore genovese Carlo Melegari contro Casalduni. Furono incendiate le case e quanti uscivano per le strade venivano fucilati. Furono violentate delle donne. La fine più straziante fu quella dell’adolescente Concetta Biondi, che subì violenza «preda di quegli assalitori inumani» e dopo essere svenuta fu uccisa. Il 14 agosto 1861 Negri scrisse: «Ieri mattina all’alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora». Le rappresaglie proseguirono anche dopo le distruzioni dei due paesi, con rastrellamenti continui sulle montagne. Cosimo Giordano capì che era inutile affrontare così tanti soldati; abbandonò Pontelandolfo al suo destino. Continuò la lotta sui monti del Matese, con varie interruzioni, fino al 1882, quando venne arrestato; nel 1884 venne condannato ai lavori forzati a vita. Morì in carcere nell’isola di Favignana, appartenente alle isole Egadi di Sicilia, il 14 novembre 1888.
     Il terzo capobrigante del quale Di Fiore parla nel suo libro è Pasquale Romano. Nato a Gioia del Colle, provincia di Bari in Puglia, prestò servizio nell’esercito napoletano per quasi dieci anni, divenendo sergente e alfiere. Sciolto l’esercito napoletano fu nominato dal Comitato borbonico di Gioia capo della rivolta antipiemontese. Assaltò con la sua banda Alberobello, Cellino, Carovigno, Erchie. Ebbe contatti con Carmine Crocco. Fu ucciso a sciabolate il 5 gennaio 1863, nei boschi della Vallata vicino a Gioia del Colle, insieme a ventidue uomini della sua banda, dai piemontesi cavalleggeri di Saluzzo. Non fu chiamato un fotografo a riprendere la macabra scena; del sergente Romano non si conosce nessuna fotografia. Il cadavere del Romano fu messo sul dorso di un asino, per essere mostrato nel suo paese. Si andava là, scrisse la “Gazette de France”, «come ad un pellegrinaggio santificato dal martirio. Gli uomini si scoprivano il capo, le donne si inginocchiavano, quasi tutti piangevano». Anche se qualcuno era ancora convinto che si trattasse di un sosia messo in piazza per ingannare la gente.
Rocco Biondi
    
Gigi Di Fiore, Briganti! Controstoria della guerra contadina nel Sud dei Gattopardi, Utet, Milano 2017, pp. 350