Ai tempi del brigantaggio post unitario chi sapeva leggere e scrivere stava dalla parte dei galantuomini (i signori), chi non sapeva né leggere né scrivere o era brigante o parteggiava per i briganti. L’eccezione erano i preti che, per ragioni loro, simpatizzavano più per i briganti.
L’avvocato e professore Antonio Vismara, nativo di Vergiate in provincia di Varese, era sceso nel napoletano insieme ai colonizzatori piemontesi. Come loro anche lui voleva redimere i cafoni meridionali. Ed opinava che il brigantaggio «non sia una piaga cancrenosa che esiga l’opera chirurgica, ma che sia un vizio patologico del corpo sociale». Per lui il brigantaggio è «una espulsione cutanea che ci mostra l’acrimonia interna e ci avverte di curarci».
Non è per niente tenero con briganti «che rubano, che assassinano, che seviziano, che stuprano, che insultano all’umanità, alla morale, alla religione, alla civiltà, alla patria, e si ritengono per difensori dell’altare e del trono e non sono altro che i giannizzeri del delitto più abbietto». I briganti sono «un’onda di melma composta di tutte le sozzure mondane».
Il libro fu pubblicato a Napoli il 1865. Il brigantaggio non era stato ancora sconfitto definitivamente. Dal 15 agosto 1863 al 31 dicembre 1865 sarebbe stata in vigore la famigerata legge Pica.
Vismara non lascia dubbi sulla sua scelta di campo. E dopo aver affermato che «il sangue non soffoca il sangue: con mezzi illegali non si calpesta l’illegalità», scrive senza pudore che «al governo italiano – sorto dal consenso dei vari popoli della penisola – che ha per programma la libertà e l’unità della patria, non sono applicabili tali parole. Egli non userebbe che i mezzi legali». Vuole ignorare completamente il vergognoso massacro che l’esercito piemontese stava facendo di tantissimi meridionali, italiani pure loro. Ignora pure la farsa dei plebisciti di annessione al regno sabaudo-piemontese.
Per Vismara i carabinieri erano dei valorosi che «né il freddo, né l’oscurità li trattenevano» e quando morivano ammazzati dai briganti la loro era «morte onorata e che la patria gli ricorda con gratitudine». I briganti erano invece «gente che si dissetava col sangue umano, si cibava di carne umana, gente peggiore della tigre che non divora la sua specie! Gente più schifosa dello scarafaggio, orrida più del rusco, più vile dell’alga abbietta». E come tali, come animali, potevano essere ammazzati senza pietà (con buona pace di chi rispetta pure gli animali).
Ma allora, qualcuno potrebbe chiedermi perché io stia recensendo questo libro. Lo faccio solamente perché la riedizione è stata curata dall’amico Valentino Romano, che riconosce al Vismara una qualche capacità di analisi del fenomeno del brigantaggio, se pur non del tutto condivisibile oggi, che prelude alla concezione «che solo nella metà del secolo appena passato troverà nuova linfa grazie al lavoro di Franco Molfese, di Tommaso Pedio e di tanti altri storici “revisionisti”, tutti propensi a riconoscere alla ribellione del Sud contro l’unità d’Italia carattere e dignità di rivolta anarcoide del mondo contadino meridionale contro il potere che lo opprime».
Per il Vismara tre sono le cause principali che hanno portato al brigantagiio: lo scioglimento dell’esercito borbonico, la povertà dei contadini meridionali, la presenza del clero al fianco dei briganti.
Come altri libri, scritti al momento che si svolgevano i fatti, anche questo del Vismara è un’utile fonte per conoscere fatti e protagonisti del brigantaggio. Nello specifico, vita ed imprese dei fratelli Cipriano e Giona La Gala, nati a Nola in provincia di Napoli, il primo nel 1834, il secondo due anni dopo. Nel 1855 i due fratelli vennero condannati a 20 anni di carcere per un furto, durante il quale vi fu un morto. Nel 1860 i due fratelli La Gala fuggirono dal carcere di Castellamare e si diedero alla macchia diventando briganti; ma Giona subito dopo venne arrestato nuovamente e rinchiuso nel carcere di Caserta, dal quale evase l’anno dopo. Cipriano formò una sua banda, che contò fino a trecento uomini. Teatro delle gesta furono i monti di Cancello e del Taburno, in Campania. Seguirono sequestri, depredazioni, omicidi, saccheggi, scontri con le forze armate piemontesi. Nel gennaio 1862 raggiunsero Roma, dove incontrarono il re in esilio Francesco II Borbone, che voleva mandarli a Marsiglia ed a Barcellona per reclutare gente per una guerra di riconquista dell’ex Regno delle Due Sicilie. Si imbarcarono a questo fine sulla nave francese Aunis. Ma nel porto di Genova furono arrestati dai piemontesi. Ne nacque un incidente diplomatico, che si concluse con la restituzione dei La Gala ai francesi in un primo tempo e con l’estradizione poi dalla Francia all’Italia. Portati a Napoli per il processo, vennero condannati a morte. Condanna poi tramutata all’ergastolo. Cipriano venne rinchiuso nel carcere del cantiere della Foce a Genova e Giona a Portoferraio.
Il titolo originale dell’opera del Vismara è Cipriano e Giona La Gala o i misteri del brigantaggio.
Antonio Vismara da Vergiate, I briganti La Gala – Storie di omicidi, di sequestri e di grassazioni all’indomani dell’Unità d’Italia, Capone Editore, Lecce 2008, pp. 120, € 8,00
4 aprile 2008
I briganti La Gala, di Antonio Vismara da Vergiate
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