3 febbraio 2016

Storie e leggende di briganti e brigantesse, di Tarquinio Maiorino



Tarquinio Maiorino, nato ad Isernia (Molise) il 20 gennaio 1927 e morto a Roma il 2 ottobre 2005, in questo suo libro esprime sostanzialmente sul brigantaggio, come lui stesso scrive a proposito delle brigantesse, un giudizio di comprensione e di rispetto, anche se non certo di approvazione.
     L’autore, dopo aver tentato molto rapidamente quasi una storia universale del fenomeno, si concentra sul periodo ritenuto aureo dei briganti italiani e cioè un po’ tutto l’arco dell’Ottocento, con particolare riguardo al periodo postunitario dal 1860 in poi. Nel decennio 1860-1870 infatti la metà dell’esercito nazionale fu impiegato nell’ex Regno delle Due Sicilie per combattere il dilagare del brigantaggio filoborbonico, che riuscì a contare fino a 80.000 briganti-guerriglieri. Scrive il Maiorino: «Si disse allora che la repressione del brigantaggio poteva essere considerata la nostra quarta guerra di indipendenza».
     Ma già l’inizio del secolo aveva visto la vicenda della spedizione sanfedista del cardinale Ruffo, che servendosi fra gli altri del brigante Fra Diavolo era riuscito a riportare sul trono di Napoli il re Borbone Ferdinando IV. Fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento poi si assisterà al banditismo sardo e ai «ai grandi solisti dello schioppo» come il calabrese Giuseppe Musolino.
     Di brigantaggio si parlò già nel primo secolo avanti Cristo quando il gladiatore Spartaco riuscì a guidare contro Roma 70.000 uomini schiavi, tristemente sconfitti però. Anche nel Medio Evo fiorì il brigantaggio; per tutti basta ricordare Ghino di Tacco in Toscana e Marco Berardi in Calabria. Molti briganti italiani si rifacevano al semileggendario bandito inglese Robin Hood, che toglieva ai ricchi per dare ai poveri.
     All’autore del libro sembra quasi incredibile che il cinema si sia lasciato sfuggire quasi totalmente un filone su cui avrebbe potuto vivere di rendita, esattamente come ha fatto Hollywood con l’epopea western. Il cinema italiano, scrive Maiorino, non ha ancora trovato il suo Cecil De Mille.
     Nel libro si parla poi di Michele Pezza, ossia Fra Diavolo, nato a Itri (provincia di Latina) nel 1771 e morto a Napoli nel 1806 impiccato dai francesi.
     A Napoli nel 1815 tornò per la seconda volta il Borbone Ferdinando IV, che con rapida transizione considerò i briganti da ex alleati nemici da combattere.
     Vittime di questo voltafaccia dei Borbone furono i fratelli Vardarelli, che sconfissero con la loro banda in diverse occasioni l’esercito borbonico. Tant’è che il regno delle Due Sicilie fu costretto a sottoscrivere un armistizio con i fratelli Vardarelli. La loro «Comitiva» entrava trionfalmente a far parte degli organici di polizia borbonica. Ma attirati in un tranello i Vardarelli furono massacrati.
     Non miglior fortuna toccò al «prete brigante» Ciro Annicchiarico, che fu fucilato da un plotone d’esecuzione borbonico.
     Ma nonostante questa atmosfera cupa, scrive il Maiorino, il regno borbonico, in cui il brigantaggio ebbe la sua culla come fenomeno che faceva comodo nei momenti critici e come piaga da estirpare nelle fasi di normalizzazione, fu anche un mondo di luci. A Napoli, dopo la doppia restaurazione, si registrarono iniziative tecnologiche e urbanistiche decisamente d’avanguardia. Nell’ottobre 1839 il regno del Sud fu il primo Stato italiano a possedere una strada ferrata: la ferrovia Napoli-Portici. A Pietrarsa fu impiantata una fabbrica di locomotive a vapore. Nel 1844 fu inaugurato l'Osservatorio vesuviano, il più antico osservatorio vulcanologico del mondo, fondato dal re delle due Sicilie Ferdinando II di Borbone. L’anno successivo Napoli venne scelta come sede del settimo congresso degli scienziati italiani. La reggia di Caserta veniva paragonata a Versailles. Il Teatro San Carlo, uno dei più famosi e prestigiosi al mondo, costituiva un sicuro polo d’attrazione. Un altro richiamo era costituito dagli studi di famosi pittori.
     Con le repressioni concluse intorno al 1820 parve che il brigantaggio si avviasse al tramonto. Sarebbero passati quattro buoni decenni, scrive ancora il Maiorino, prima che i «cafoni» in vesti di briganti tornassero grandemente in auge, ancora una volta nel ruolo di benemeriti patrioti borbonici.
     Di tutti i periodi vengono elencati, quasi sempre con note biografiche, molti briganti. E il brigantaggio fu un fenomeno non solo del Sud. Nel libro tra gli altri troviamo, con molti dettagli, Giuseppe Antonio Majno, detto «Majno della Spinetta», nel Piemonte, nato il 1780 e ucciso dai gendarmi nel 1806; Stefano Pelloni, chiamato da Giovanni Pascoli «Passator cortese», in Romagna, nato nel 1824 e ucciso dai gendarmi nel 1851; Domenico Tiburzi, detto «Domenichino» e che s’era guadagnato il titolo di «re della Maremma», nell’alto Lazio, nato il 1836 e ucciso dai carabinieri nel 1896.
     Del decennio 1860-1870, nel Sud, insieme ad altri vengono presentati Pasquale Domenico Romano, detto «sergente Romano», nato a Gioia del Colle (Bari) il 1833 e ucciso a sciabolate nel 1863 dai soldati piemontesi; i fratelli Cipriano e Giona La Gala, nato il primo, più grande, nel 1830 a Nola (Campania), furono famosi, in seguito al loro arresto sulla nave francese Aunis, per il processo che li condannò a morte (fucilazione in seguito commutata in ergastolo); Michele Caruso, nato a Torremaggiore (Foggia) nel 1837 e fucilato dai piemontesi nel 1863; Cosimo Mazzeo, detto «Pizzichicchio», nato a San Marzano (Taranto) il 1837 fu fucilato dai piemontesi nel 1864; Luigi Alonzo, detto «Chiavone», nato a Sora nel 1825, vittima di una faida interna, infatti fu fucilato dal legittimista generale spagnolo Tristany
     Un capitolo a parte è riservato a Carmine Crocco Donatelli «il generalissimo», nato a Rionero (Potenza in Basilicata) il 1830. La sua banda brigantesca riuscì a contare fino a 2.200 uomini, di cui molte centinaia a cavallo. Inflisse varie sconfitte ai piemontesi. Tradito dal suo capobanda Giuseppe Caruso, dopo un processo fu rinchiuso nel carcere di Portoferraio dell'Isola d'Elba, dove morì nel 1905.
     Si parla anche del brigantaggio nello Stato Pontificio, e tra gli altri del capobrigante Giovanni Battista Gasparoni e di Gaetano Coletta detto «Mammone».
     L’ultimo capitolo è dedicato alle brigantesse, che, imbracciando la carabina, cavalcarono nelle scorribande accanto ai loro uomini, partecipando agli agguati e agli scontri a fuoco. Si parla tra le altre di Rosa Reginella, Serafina Ciminelli, Filomena Cianciarulo, Maria Capitanio, Michelina Di Cesare, Maria Orsola D’Acquisto, Maria Oliverio.
     Di tanto altro ancora e di tanti altri si parla nel libro, tentando di tracciare un quadro generale del fenomeno brigantaggio, finendo con l’essere purtroppo un po’ generico.
Rocco Biondi

Tarquinio Maiorino, Storia e leggende di briganti e brigantesse. Sanguinari nemici dell’Unità d’Italia, Piemme Edizioni, Casale Monferrato (Alessandria) 1997, pp. 380

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