1 marzo 2015

Il brigantaggio nella provincia di Salerno dopo l’Unità, di Gaetano D’Ambrosio



La provincia di Salerno (Principato Citra al tempo del Regno delle Due Sicilie), in Campania, era divisa in quattro circondari: Salerno (43 comuni), Campagna (35 comuni), Sala Consilina (27 comuni), Vallo della Lucania (53 comuni). La sua superficie era occupata per il 20% da monti, coperti in gran parte da fitti ed estesi boschi, che offrivano ottimi nascondigli alle bande brigantesche.
     Gaetano D’Ambrosio, con un grande lavoro di scavo delle fonti, ha già pubblicato tre corposi volumi sul brigantaggio postunitario nei circondari di Campagna, Salerno, Sala Consilina. Ed ha in preparazione un quarto volume sul circondario di Vallo della Lucania. Caratteristica comune ai volumi è quella di trascrivere tanti documenti d’archivio (ripetendo alcune volte da punti di vista differenti lo stesso episodio).
     Michele Melino nella presentazione del primo volume, dopo aver definito il brigantaggio un movimento di resistenza contro coloro che, presentatisi come liberatori, si rivelarono presto come oppressori e aguzzini, e una protesta dei cafoni e dei delusi contro le violenze perpetrate in nome dell’unità nazionale, afferma di notare un certo tono partigiano che fa essere l’autore dalla parte dei vinti, sentiti come patrioti.
     Il volume si apre con quattro capitoli che trattano rispettivamente del quadro storico del Mezzogiorno d’Italia fino all’Unità, dell’ambiente socio-economico del Regno di Napoli, del Regno d’Italia, della genesi del brigantaggio nell’Italia Meridionale. Nel quadro storico si parla positivamente dei re Carlo di Borbone, Ferdinando I, Francesco I, Ferdinando II, Francesco II. L’ambiente socio-economico del Regno di Napoli era allora caratterizzato dal grande vantaggio che veniva dato alla borghesia con l’abolizione della feudalità e dal conseguente sviluppo, con la scomparsa della piccola proprietà contadina, della protesta armata del brigantaggio. Dal moto unitario dei Savoia erano quasi totalmente rimasti esclusi l’esercito, il clero e le popolazioni rurali, che costituivano i nove decimi della popolazione (ma non avevano voluta l’unità nemmeno la nobiltà, gli scienziati, gli artigiani, i commercianti); i piemontesi non migliorarono la situazione degli abitanti del Sud, anzi la peggiorarono. Alla base delle rivolte contadine e brigantesche vi fu una forte componente sociale, ma non mancò la componente politica dovuta alla cacciata dei Borbone dal loro Regno delle Due Sicilie; e i briganti furono appoggiati dalla popolazione meridionale, altrimenti non si spiega la loro sopravvivenza per molti anni.
     Segue una lunga e dettagliata documentazione delle molte bande che operarono nel periodo postunitario nel circondario di Campagna. Ottanta pagine sono dedicate alla banda capitanata da Gaetano Tranchella, nato a Serre, che era stato sottufficiale dell’esercito borbonico. La sua banda raggiunse una trentina di componenti, che oltre a combattere i piemontesi, risolvevano anche il loro problema economico e quello delle loro famiglie, sia con i fondi mandati da Roma, sia con i lauti proventi delle rapine e dei ricatti. Si dice che vera organizzatrice e cervello della banda sia stata Luigia Cannalonga, madre del capobrigante. Il Tranchella fu ucciso in combattimento nel novembre del 1864.
     Alla morte del Tranchella i sopravvissuti della sua banda si riorganizzarono in altre due bande capeggiate da due suoi luogotenenti, quella di D’Errico Vitantonio, detto Scarapecchia, che contava una quindicina di briganti e quella di Raffaele D’Ambrosio formata da circa undici individui. Spesso queste due bande agirono unite tra loro e con le bande di Cerino, Ciancio, Parra e Boffa, raggiungendo fino ad ottanta componenti. Sia lo Scarapecchia che il D’Ambrosio vennero uccisi nel 1867.
     Alla banda di Antonino Maratea, soprannominato Giardullo, sono poi dedicate centoquarantatre pagine. Nato a Campagna nel 1837, soldato del disciolto esercito delle Due Sicilie, fu uno dei briganti più significativi del salernitano. Già dall’inizio facevano parte della banda una quarantina di briganti, tra i quali Gaetano Manzo, Andrea Ferrigno, Vincenzo Pizza, Liberato Boffa, Luigi Cerino, i quali formeranno delle bande autonome, poco prima o subito dopo l’arresto del capobanda Giardullo. Nella banda non mancavano le donne, che seguivano i loro uomini. L’astuzia e l’arte dell’inganno si associavano al valore dei briganti, come quando vestiti con la divisa dei carabinieri, capitanati dal Giardullo, fecero visita al corpo di polizia locale, sbeffeggiandolo. La banda, grazie alla protezione di militari corrotti, scendeva spesso a Campagna a pranzare. Furono messi in atto vari sequestri, accumulando molti soldi dai riscatti. Tanti furono i manutengoli campagnesi che si arricchirono. Fecero affari con il brigantaggio le famiglie Castagna e Margherita. Il Giardullo fu fucilato, dopo essere stato arrestato e processato, il 1° dicembre 1865.
     Seguono descrizioni e documenti sulle bande capitanate da Liberato Boffa ucciso il 1867, Giovanni Marcantuono ucciso il 1870, Pasquale Riccio e Lorenzo Meola, Giacomo Parra detto lo Scorzese ucciso il 1866, Matteo Stiuso, Giuseppe Pacelli e Matteo Gesummaria morto fucilato, Michele Gugliociello, Michele Gargiulo detto Centrella arrestato nel 1871.

Il secondo volume, sul circondario di Salerno, porta la prefazione di Valdo D’Arienzo, che scrive: «Una delle tante e possibili chiavi di lettura del brigantaggio meridionale va individuata nella caratteristica stessa dello Stato sabaudo: quel centralismo testardo e ostinato che poco si prestava a venire incontro ai problemi secolari del vecchio Regno borbonico». Quella sabauda fu un’unificazione imposta, che sostanzialmente fu un processo di espansione del Regno sabaudo. I problemi del Sud, scrive ancora D’Arienzo, rimanevano irrisolti, anzi si acuivano scontrandosi con modelli culturali, economici, fiscali, giudiziari, amministrativi etc., imposti e completamente estranei alla realtà del Regno delle Due Sicilie. L’analisi che lo Stato sabaudo faceva del brigantaggio teneva in scarsa considerazione gli aspetti sociali del fenomeno e vedeva in esso esclusivamente un problema di natura militare.
     Le prime trecentonovantasei pagine sono dedicate alla banda Manzo. Gaetano Manzo di Luigi era nato nel 1837 in Acerno. Nel sorteggio gli era toccato l’esonero dal servizio militare, ma il sindaco del paese imbrogliò le carte e il Manzo fu invitato a presentarsi alla leva; non avendolo fatto ne fu disposto l’arresto. Il Manzo si nascose fra i suoi compaesani che lo favorirono e decise di vendicarsi. Non uccise il sindaco ma lo ferì gravemente. Fece inizialmente parte della banda Giardullo, ma poi costituì una sua banda, che raggiunse fino a venticinque componenti.
     L’attività principale della banda Manzo è consistita in sequestri di persona a fini estorsivi. I sequestri effettuati furono quelli di Giuseppe Olivieri e Luigi Colabritto, degli inglesi Moens e Murray, degli svizzeri Federico Wenner, Giovan Giacomo Linchtensteiger, Isacco Friedli e Rodolfo Gluber, di Arcurio Pietro, dei canonici Biagio Perito e Giuseppe Gallotta, di Gaetano Zamprile, di Giacomo Cerino assieme a due suoi figli e Lorenzo D’Elia, di Francesco Capuano, di Francesco Comella, del taverniere Adamo Postiglione.
     I sequestri più salienti furono i primi tre, trattati poi dagli stessi protagonisti in alcune loro pubblicazioni. Il sequestro dell’Olivieri e del Calabritto avvenne l’11 gennaio 1864. L’Olivieri, 33 anni dopo dell’accaduto, ne parlò nel libro “Ricordi briganteschi”. Il sequestro fu compiuto dalla banda Giardullo, della quale Manzo ne faceva parte come caporale e viene descritto come “il men perverso, selvatico, disumano”. Del Calabritto ne scrisse il figlio nell’opuscolo “In memoria di mio padre”. I sequestrati furono trattenuti sui monti per circa due mesi e liberati dopo che venne pagato il riscatto; per il Calabritto venne pagato un riscatto di 4000 ducati e 30 napoleoni.
     Il sequestro degli inglesi William Moens, fotografo e ricco proprietario, e del reverendo Murray-Aynsley avvenne il 15 maggio 1865. Il Murray venne liberato subito perché doveva raccogliere il denaro per il riscatto del Moens, che venne liberato dopo tre mesi di prigionia in seguito al pagamento di un riscatto di 30.000 ducati. Questa esperienza è narrata nel libro “Briganti italiani e viaggiatori inglesi”, dove si alternano estratti dal diario di William Moens e dal diario della moglie Annie Moens.
     La sera del 13 ottobre 1865, la banda di Gaetano Manzo sequestrava gli svizzeri Federico Wenner, Giacomo Linchtensteiger, Isacco Friedli e Rodolfo Gluber, nei pressi della loro fabbrica tessile in Capezzano (Salerno). Questo sequestro fece un grande scalpore a livello nazionale ed internazionale. Gli ultimi due furono liberati dopo pochi giorni, i primi due invece dopo quattro mesi in seguito al pagamento di circa 42.000 ducati di riscatto. Di quel sequestro scrisse il Lichtensteiger nel suo libro “Quattro mesi fra i briganti”.
     Dei soldi pagati per i riscatti pochi ne rimanevano ai briganti. Il manutengolismo rendeva molto bene. Molti trassero dal brigantaggio grande vantaggio. E spesso, scrive il D’Ambrosio, alcune grassazioni o semplici furti venivano fatti da ladri matricolati, che, approfittando del fenomeno del brigantaggio, li commettevano dietro il paravento di quel fenomeno.
     Il 4 marzo 1866, Gaetano Manzo insieme ad altri quattro briganti si consegnarono nelle mani del Prefetto. Fu celebrato il processo, alla fine del quale (29 maggio 1870) il Manzo venne condannato ai lavoro forzati a vita. Fu chiuso alle Murate di Firenze, poi a Pescara e dopo a Chieti, da dove fuggì il 6 novembre 1871. Fu ucciso in combattimento a Flùmeri (Avellino) nell’agosto del 1873.
     Si parla in seguito della banda comandata da Luigi Cerino, composta da circa trenta briganti, che effettuò alcuni sequestri di persona a fine di ricatto. La banda di Cerino si riunì a quelle di Cianci, Parra, Boffa e Scarapecchia, raggiungendo il numero di circa ottanta briganti, coll’intendimento, scrive il D’Ambrosio, di invadere qualche paese. Cerino venne ucciso in combattimento dai carabinieri l’8 gennaio 1867, grazie alla collaborazione del brigante-pentito Giuseppe Caruso di Atella.
     L’ultima parte del libro è dedicata alla banda di Andrea Ferrigno.

Il 6 settembre 1860 il re Francesco II si trasferisce nella fortezza di Gaeta, per evitare alla sua cara Napoli di subire bombardamenti e distruzioni; i piemontesi infatti stavano invadendo il Regno delle Due Sicilie, senza alcuna dichiarazione di guerra. Dopo cinque mesi di bombardamenti anche Gaeta fu costretta alla resa e Francesco II si trasferì a Roma, ospite di Pio IX.
     Solo pochi intellettuali idealisti si erano schierati con i piemontesi, la stragrande maggioranza della popolazione meridionale restava con i Borbone. Le condizioni economiche dei contadini si aggravarono sempre più. Furono costretti a vendere anche la loro piccola casa urbana e venivano cacciati dal loro pezzo di terra. L’unico modo, scrive il D’Ambrosio, per far conoscere la loro volontà e le loro aspirazioni era la rivolta contro le istituzioni, che, dopo la caduta dei Borbone, si trasformò in una vera rivolta sociale. Si costituirono bande armate, formate dai contadini, dai renitenti alla leva militare, dai soldati sbandati dell’esercito borbonico. Tutti questi vedevano nella restaurazione borbonica la forza che potesse porre fine alle rappresaglie, agli abusi e alle ingiustizie dei piemontesi.
     La prima rivolta antipiemontese si ebbe a Valva (Salerno) il 21 ottobre 1860, giorno dello pseudo plebiscito per l’annessione del Regno dello Due Sicilie al piemontese Regno di Sardegna. La ribellione costrinse alla sospensione della votazione per il plebiscito e fu fatta una festa con illuminazione e falò, furono lacerati i ritratti di Vittorio Emanuele e Garibaldi, rialzando quelli di Francesco II e Maria Sofia. Le Guardie Nazionali ingaggiarono un conflitto a fuoco, riportando poi la vittoria.
     Altra rivolta si ebbe in Auletta (Salerno) il 29 luglio 1861. Circa duecento insorgenti entrarono nel paese inneggiando a Francesco II e gli Aulettani si unirono a loro facendo suonare le campane a festa. All’arrivo dei soldati piemontesi i briganti fuggirono dopo aver opposta qualche resistenza. Seguirono molti arresti nelle file dei filoborbonici.
     La prima banda brigantesca di cui si parla è quella capitanata da Francesco Rizzo, nato a Corleto. Riuscì a mettere insieme una cinquantina di briganti. L’attività principale di questa banda, come delle altre di quel territorio, consisteva nei sequestri a fine di riscatto. Il Rizzo fu ucciso in combattimento il 26 dicembre 1861.
     Molti furono i movimenti reazionari e i briganti che agirono nel circondario di Sala Consilina. Le fucilazioni di questi ultimi si susseguivano senza tregua. Anche la banda Giardullo per un certo periodo operò in questo circondario. Vennero processati anche molti manutengoli. La famigerata legge Pica provocò tanti morti e tanti dolori tra le masse insorgenti.
     Fra le tante ordinanze antibrigantaggio che furono emanate vi fu anche quella che ordinava ai pastori, ai coloni e a tutti quelli che abitualmente praticavano la montagna di tenere i cani legati ed in luogo chiuso, in modo che non notando i movimenti delle truppe piemontesi non avrebbero abbaiato, dando l’avviso ai briganti dell’avvicinarsi dei militari. Tutti i cani che venivano incontrati dai militari venivano uccisi.
     Il brigantaggio nella provincia di Salerno continuò fino agli anni settanta. Nel 1866 i briganti, che in genere si comportavano da insorgenti, invasero i Comuni di Fogna, Roscigno e Sacco. La propaganda contro il governo piemontese era continua, fatta da parte di elementi appartenenti ad ogni ceto sociale.
     Per distruggere il brigantaggio fu impiegato un esercito di oltre 120.000 uomini. Anche la reazione, da parte sua, organizzò una capillare rete di resistenza. Furono istituiti Comitati borbonici in molte città, dove mancavano operavano gli emissari. Scopo dei Comitati era quello di reclutare il maggior numero di persone capaci di promuovere l’insurrezione nei Comuni di residenza. Numerosi Comitati esistevano anche in diversi Stati europei. Già nel 1861, scrive D’Ambrosio, operavano in tutta l’Italia Meridionale; nel Napoletano gli iscritti erano oltre 81.000, di cui 17.000 armati. I Comitati non sempre riuscivano a coordinare la guerriglia, che non ebbe quindi l’esito sperato di riportare sul trono il legittimo re Borbone.
     Fra le bande più significative, che operarono anche nel circondario di Sala Consilina, sono da annoverare quella capitanata da Giuseppe Cianciarullo nato a Marsiconuovo (Potenza) e quella di Angelantonio Masini nato a Marsicovetere (Potenza). Il primo venne ucciso in combattimento alla fine del 1868. Il secondo era stato ucciso dai militari piemontesi il 20 dicembre 1864.
     Altro capobrigante che operò nella zona era Giuseppe Leonardo Padovano, detto Cappuccino, già soldato del disciolto esercito borbonico. Quella del Cappuccino, scrive D’ambrosio, fu una lotta senza quartiere: rapinava per non essere rapinato, uccideva per non essere ucciso e, spesso, restituiva il maltolto alle classi indigenti. Lottò ininterrottamente dal 1861 al 1874, anno in cui fu ucciso in uno scontro con le forze militari nel territorio di Padula il 24 luglio.
     Alla morte di quest’ultimo capobrigante, il suo vice Francolino (quasi certamente Vito) assunse il comando della banda. Nell’agosto 1877 due fratelli, allettati dalla promessa di un premio di 50.000 lire, lo uccisero a tradimento.
     Con la sua morte, scrive D’Ambrosio, ebbe termine, dopo circa 17 anni, la lunga e disperata fase del brigantaggio reazionario.
             
Gaetano D’Ambrosio, Il brigantaggio nella provincia di Salerno dopo l’Unità, Vol. I (Circondario di Campagna), Palladio editrice, Salerno 1991, pp. 720

Gaetano D’Ambrosio, Il brigantaggio nella provincia di Salerno, Vol. II (Circondario di Salerno), Edizione Grafica Ebolitana, Contrada Epitaffio 2007, pp. 597

Gaetano D’Ambrosio, Il brigantaggio nella provincia di Salerno, Vol. III (Circondario di Sala Consilina), Edizioni Grafica Ebolitana, Contrada Epitaffio 2011, pp. 584

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