Nel Sud contrari all'Unità d'Italia ed all'invasione piemontese non furono solo i cafoni, ma anche parecchi galantuomini. Questa era la tesi che si volle dimostrare nel processo tenutosi a Napoli contro i cosiddetti “congiurati di Friso”.
L'avventura comincia il 23 luglio 1861, alle dieci di sera, quando una pattuglia di carabinieri circonda la casina di Frisio sulla costa di Posillipo. Viene arrestato il prete Bonaventura Cenatiempo, insieme ad altri cinque, sospettati di aver ordito una congiura borbonica. Altri sono riusciti a fuggire in barca. Vengono sequestrati due revolver (ben poca cosa per una ipotetica congiura). Gli arrestati vengono prima portati in questura per essere interrogati e poi in carcere. Nell'agosto del 1861 ha inizio l'istruttoria da parte della magistratura. Viene messo insieme un incartamento di dieci volumi contenenti tutti i rapporti, gli interrogatori e i documenti del processo. Vengono ingaggiati per la difesa degli imputati i migliori avvocati di Napoli. Il 18 luglio 1862 con il processo Cenatiempo viene inaugurata la nuova Corte d'assise. Nell'udienza del 30 luglio 1862 viene eseguita al gruppo degli imputati una fotografia, come si faceva per i briganti. Il dibattimento dura quattordici giorni. La sentenza di condanna viene emessa il 7 agosto 1862.
Tommaso Pedio, nella prefazione al libro, afferma che mentre nel processo Cenatiempo non si hanno prove sulla presenza di un vasto movimento borbonico, ma solo indizi, in altri processi dell'epoca questa prova è certa. Che attivi Comitati borbonici fossero presenti a Napoli e nelle altre province dell'ex Regno delle Due Sicilie è ampiamente provato. E di questi Comitati facevano parte uomini della ricca e media borghesia. Anche se nei processi i galantuomini vengono tutti assolti. Il nuovo potere centrale piemontese voleva dimostrare che nelle province napoletane il movimento borbonico era inesistente. Bisognava dimostrare che Francesco II continuava a mantenere contatti soltanto con delinquenti comuni, ladri ed assassini, i cosiddetti “briganti”. La Magistratura, con le sue sentenze, avvalorava questa tesi ignorando le vere cause che avevano dato origine al brigantaggio postunitario.
Col processo Cenatiempo invece si volle dare un avvertimento ai galantuomini che osteggiavano il nuovo regime. Con la sentenza infatti vennero condannati a dieci anni di lavori forzati un prete, due ufficiali del disciolto esercito borbonico, un gendarme borbonico, un vecchio capo della guardia urbana; a cinque anni di lavori forzati viene condannato un ragazzo quindicenne; vengono assolti due soldati svizzeri ed una fattucchiera. Viene dichiarato esente da pena un delatore.
Al processo, che suscitò grande interesse nell'opinione pubblica, assistettero numerosi giornalisti della stampa italiana ed estera e tra questi Alessandro Dumas e Marc Monnier.
Originariamente, nel processo di Frisio, erano stati accusati di cospirazione in sessanta. Di questi in trentasette furono mantenuti inizialmente in arresto e poi prosciolti. Solo dieci comparvero innanzi alla corte di Assise. Gli altri erano latitanti. E come abbiamo già visto, solo sei vennero condannati.
Ma chi erano i condannati?
Bonaventura Cenatiempo. Vicario generale della diocesi di Avellino e avvocato ecclesiastico. Gesuita, dopo lo scioglimento dell'ordine decretato da Garibaldi, viene nominato dal cardinale di Napoli Sisto Riario Sforza rettore della chiesa del Gesù Nuovo, dove è protagonista di una lunga contesa col frate garibaldino Giovanni Pantaleo da Caltagirone. Perde e viene rimosso dall'incarico. Da allora Cenatiempo frequenta ed anima la resistenza borbonica. Nell'ottobre del 1862 Cenatiempo riesce a fuggire dal carcere di S. Maria Apparente. Raggiunge Roma e viene ricevuto in Vaticano da Pio IX. Passa gli ultimi anni della sua vita in grande povertà, trovando l'ultimo rifugio nell'ospizio di S. Girolamo Emiliani.
Teodulo Emilio de Christen. Conte imparentato con le migliori famiglie dell'epoca. Nato nel 1833, dal 1853 è nell'esercito francese, che lascia nel 1860 col grado di colonnello. Va prima a Roma e poi a Gaeta per porsi al servizio di Francesco II. Combatte negli Abruzzi a fianco dei briganti. Combatte anche insieme al brigante Chiavone di Sora. Dopo la liberazione dal carcere s'imbarca per Marsiglia, ma poi ritorna a Roma dove lo troviamo nel 1870 nello stato maggiore delle truppe pontificie per combattere l'invasione piemontese. Ma Pio IX rinuncia all'inutile scontro con le truppe piemontesi, che entrano in Roma. De Christen viene espulso e due mesi dopo muore.
Achille Caracciolo di Girifalco. Nato a Napoli nel 1829, si arruola come volontario nell'esercito napoletano raggiungendo il grado di alfiere. Segue Francesco II a Capua e Gaeta. Partecipa alla spedizione del de Christen negli Abruzzi. Per qualche settimana è anche al fianco di José Borjes, che partendo dalla Calabria dovrebbe tentare la velleitaria impresa di riconquistare il Regno borbonico. Liberato, come gli altri condannati di Frisio, il 25 novembre 1863 per indulto, emigra in Francia, dove sposa un'americana. Muore nel 1870.
Degli altri condannati Girolamo Tortora, Domenico de Luca e Franceso de Angelis si hanno scarse notizie.
Una menzione a parte merita anche il delatore Ettore Noli, strumento nelle mani dei vincitori piemontesi, per creare un falso processo. Da uomini come lui nacque l'unità d'Italia.
Al processo di Frisio, che all'epoca impressionò molto l'opinione pubblica, si volle dare un carattere di esemplarità. Tutto il Sud – scrive Silvio Vitale – è infatti coperto di insurrezioni legittimiste e occorre scoraggiare e deprimere gli avversari del nuovo regime. In definitiva, la sentenza va vista essenzialmente come uno tra i tanti episodi della repressione politica in atto nel Napoletano negli anni immediatamente successivi al 1860.
Rocco Biondi
Silvio Vitale, I Congiurati di Frisio, Un tentativo di insurrezione borbonica a Napoli durante l'occupazione piemontese, prefazione di Tommaso Pedio, il Cerchio Iniziative Culturali, Rimini 1995, pp. 208
24 marzo 2009
I Congiurati di Frisio, di Silvio Vitale
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