23 ottobre 2019

La guerra per il Mezzogiorno, di Carmine Pinto


Il libro di Pinto si chiude con la frase «la guerra al brigantaggio era stata una storia di italiani contro italiani». Sia i cosiddetti italiani erano «italiani» come i borbonici e i briganti. La seconda guerra d’indipendenza, l’annessione della Lombardia, le rivolte in Toscana e nelle legazioni pontificie erano durate poche settimane, la guerra contro i borbonici e i briganti durò invece un decennio o più. La guerra continuò, anche dopo la resa di Gaeta, come guerra di brigantaggio, dando vita alla guerra per il Mezzogiorno, titolo del libro.
     Pinto fra le due italie fa una precisa scelta di campo: sceglie l’Italia del nord dei piemontesi contro l’Italia del Mezzogiorno dei briganti, anche se parla a lungo di questi ultimi e qui sta la novità del suo libro. I briganti erano destinati a perdere, per il loro essere e per la loro scelta di schierarsi con i borbonici, i quali persero la guerra del Mezzogiorno contro i risorgimentali che predicavano l’unità delle due Italie. Testimonianza di questa scelta è la riproduzione messa in copertina del quadro del pittore Giovanni Fattori “Campagna contro il brigantaggio”, che rappresenta due briganti (forse morti) legati da due soldati piemontesi a cavallo.
     I risorgimentali, saldandosi con il bocco unitario-liberale meridionale, combattevano una guerra antica, che inglobava definitivamente il problema meridionale. I borbonici invece volevano conservare, con un progetto politico rinnovato, il loro regime meridionale. La Chiesa si schierò con questi ultimi. I borbonici subirono molti tradimenti nelle sue file, specialmente di generali.
     La guerra per i borbonici la combatterono i cosiddetti briganti che erano ex soldati, ex funzionari, prelati, popolari, rimasti fedeli al Borbone. Ed erano tanti se la guerra durò dieci anni. Il numero di costoro rimane incerto, ma erano molti.
     Si ricordano nel libro le varie battaglie avvenute fra gli unitari e i briganti, con alterni risultati. Sono citati, con le loro gesta, fra gli altri, i più importanti capobriganti: Carmine Crocco, José Borges, Luigi Alonzi (detto Chiavone), Giuseppe Tardio, Giuseppe Caruso (poi passato al servizio del piemontese generale Pallavicini), Pasquale Romano (detto Sergente Romano), Emile de Christen, Giuseppe Summa (detto Ninco Nanco), i fratelli La Gala, Francesco Luvarà, Cosimo Mazzeo (detto Pizzichicchio), Giuseppe Schiavone, Ludwig Zimmermann, ma anche donne brigantesse come Michelina Di Cesare.
     Sono anche citati la controparte degli unitari: Emilio Pallavicini, Enrico Cialdini, Alfonso La Marmora, Paolo Franzini, Liborio Romano, Giuseppe Bourelly, ecc.
     Sono ovviamente citati, fra gli unitari, il re d’Italia Vittorio Emanuele II, Camillo Benso conte di Cavour, Giuseppe Garibaldi, Silvio Spaventa, Bettino Ricasoli, Marco Minghetti, Ubaldino Peruzzi, Giuseppe Massari, e fra i borbonici, il papa Pio IX, il re delle Due Sicilie Francesco II, la regina Maria Sofia, Ferdinando II, Calà Ulloa, il cardinale Sisto Riario Sforza.
     Nel libro sono trattati principalmente gli anni 1860-1863, fino ad arrivare al 1870 e oltre.
     L’alto clero era borbonico; molti vescovi furono oggetto di aggressioni e costretti ad allontanarsi dalle loro diocesi. Gli ordini religiosi furono soppressi.
     I borbonici sognarono invano il ritorno della Santa Fede del cardinal Ruffo. La guerriglia sembrò una ripetizione del Decennio francese.
     In molte città nacquero i comitati borbonici, che riunivano nobili, ex funzionari, popolani, militari: Parigi, Lione, Marsiglia, Civitavecchia, Malta, Corfù, Londra, Venezia, Trieste, ecc. Si lavorò a organizzare spedizioni, raccogliere risorse, comprare armi. Falliti i tentativi, se ne organizzavano altri. Le vendette venivano praticate sia da parte dei briganti che da parte degli unitari.
     Viene messo l’accento da parte degli unitari sui contrasti nelle file dei borbonici. Ma anche fra gli unitari non mancarono ripicche e litigi sulla gestione delle operazioni. Anzi talvolta sembrò messa in discussione il processo dell’unificazione nel Mezzogiorno.
     La fotografia ebbe un grande successo fra le truppe italiane. Fra i fotografi più importanti, che documentarono quello che avvenne in quegli anni, abbiamo Alphonse Bernoud, Emanuele Russi, Ferdinando Capparelli, Raffaele Del Pozzo. Ma abbiamo anche artisti, scrittori, romanzieri, giornalisti, e non solo dalla parte unitaria ma anche dalla parte borbonica.
     Questo e tanto altro vi è nel libro di Pinto, che costituisce una novità nel campo postunitario, anche se un po’ confusionaria e nell’ambito degli unitaristi. Manca una bibliografia, affidandosi alla citazione dei tanti autori nelle note.
     Carmine Pinto è professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università di Salerno.

Carmine Pinto, La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti. 1860-1870, Laterza, Bari-Roma 2019, pp. 496, € 28,00

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