3 luglio 2019

Il libro napoletano dei morti, di Francesco Palmieri


Il libro napoletano dei morti, di Francesco Palmieri

Questo non è un libro di morti in santa pace ma di morti uccisi o che hanno ucciso. Questo fa scrivere Palmieri al poeta napoletano Ferdinando Russo, suo alter ego.
     Russo, nato a Napoli nel 1866 e morto nella stessa città nel 1927, vien fatto narrare da Francesco Palmieri “con sottile abilità” l’intera vicenda: dal brigantaggio alla camorra.
     Il contenuto del libro lo si può desumere dagli autori che Palmieri ringrazia: Giovanni Amedeo autore di un’opera su Ferdinando Russo, Erminio De Biase autore della traduzione integrale dal tedesco del diario del legittimista Zimmermann, Valentino Romano per la traduzione del diario di Borges.
     Rinaldo il buon Paladino e Gano il cattivo “non appartengono a Inferni o Paradisi ma allo strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”. Rinaldo il guappo è certamente migliore di Gano che è iscritto all’ordine dei galantuomini. La maggioranza degli uomini non sono né l’uno né l’altro ma si comportano a turno come l’uno o l’altro. Bene e male si confondono.
     Inizialmente guappo e camorrista non si confondevano; il guappo ti diceva in faccia cosa pensava, il camorrista invece amava il segreto e prediligeva l’agguato proditorio. Successivamente i due son divenuti una cosa sola.
     Don Liborio Romano, già ministro della Polizia borbonica, quando passò col nuovo regime piemontese affidò la Guardia Cittadina a camorristi con a capi e a capesse: il pluriassassino Tore ˊe Criscienzo, Michele ˊo Chiazziere, lo Schiavetto, il Persianaro, Marianna la Sangiovannara, Antonia Pace, Carmela Faucitano, Costanza Leipnecher, Pascarella Proto, e altri.
     La legge Pica inventò il termine manutengoli, che erano persone semplicemente “sospettate” di favorire o di simpatizzare con il brigantaggio, sulla base di false voci per una rivalità privata o per vendicare un torto subìto sotto il passato regime borbonico.
     Il libro parla diffusamente dei legittimisti stranieri che erano venuti a combattere per il re borbone Francesco II. Il primo di questi capitani uccisi fu il conte Edwin Kalckreuth; fu nominato aiutante del capobrigante Luigi Alonzi, detto Chiavone; fu ucciso dai piemontesi sotto falso nome. Altro Paladino straniero fu Ludwig Richard Zimmermann, che attraversò il Garigliano per “la smania guerresca”; riuscì a realizzare l’impresa non riuscita a migliaia di soldati piemontesi: la soppressione di Chiavone, che avvenne dopo un consiglio di guerra composto da lui e Tristany; morì da giornalista. L’avventura di Alfredo de Trezégnies durò tre giorni: uno per arrivare, l’altro per cominciare, il terzo per morire. Il conte Émile Theodule de Christen combatté sia per i Borbone che per Pio IX; arrestato a Napoli trascorre più di due anni nelle carceri italiane; morì di malattia a trentacinque anni.
     Il generale don Josè Borges, per difendere Francesco II, salpò da Malta 11 settembre 1861, approdò in Calabria nella notte del 13. Da qui in avanti è un’amara marcia tra insidie, tradimenti e nemici in agguato. Nel bosco di Lagopesole, in Lucania, Borges incontra Carmine Crocco, con il quale assalta vari paesi, pur rimanendo in contrasto. Borges viene fucilato alle spalle dal plotone d’esecuzione piemontese, assieme a 17 suoi compagni, nel pomeriggio dell’Immacolata Concezione del 1861, davanti alla fontana di Tagliacozzo.
     Palmieri racconta poi del camorrista Ciccio Cappuccio e del patto tra Stato e malavita.
     Il libro si chiude con la morte di Ferdinando Russo, avvenuta il 30 gennaio 1927, e della grande partecipazione di popolo al suo funerale.

Francesco Palmieri, Il libro napoletano dei morti, Mondadori, Milano 2012, pp. 186

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