Scusate se vi invio una riflessione che molti forse potranno non condividere e che ovviamente non ha nessuna pretesa di contenere delle verità. Accettatala come un pensare ad alta voce.
In questi giorni di lutto nazionale e funerali di Stato ho sentito un profondo senso di estraniazione. Va bene il dispiacere per le vittime e la solidarietà verso amici e parenti delle stesse, ma mi domando se tutta la pomposità ed ufficialità del lutto così esaltata all'unisono da stampa e televisioni (a parte le solite eccezioni) non abbia contribuito a peggiorare la situazione in merito alla riflessione più generale sul senso della presenza militare in Iraq. A me sembra che la strumentalizzazione dell'evento per giustificare la presenza dei militari è stata altissima ma la cosa che più mi preoccupa è che questo dramma ha messo in risalto ed amplificato la tendenza sempre più spinta dei mass media a non dare voce o ancor peggio a condannare chi ha il coraggio di non allinearsi, di non farsi prendere dalla spettacolarizzazione, di avere la capacità di non abbandonare mai una visione più globale senza farsi prendere da una facile emotività.
Il senso di estraneità rispetto alla pomposità dell'evento luttuoso è diventato disagio quando si è scatenata questa caccia alle streghe raffigurate in questo caso con quei sacerdoti e missionari che hanno avuto il coraggio di dire in omelie o in semplici pensieri che forse non è il caso di esaltare il ruolo dei caduti in una situazione di guerra e che forse in coerenza con il messaggio di pace evangelico addirittura, come hanno detto i comboniani di Bari non sarebbe il caso di dare i sacramenti a chi è morto in uno scenario bellico (perchè di questo si tratta) per evitare di benedire, indirettamente, la guerra stessa. Mi domando come è possibile che un Ministro degli Interni possa chiedere al Vaticano di far rettificare quanto detto nell'omelia del Vescovo di Caserta (tra l'altro se leggete il testo integrale dell'omelia vi rendete conto del senso di misura usato dal Vescovo). Un Vescovo che chiede di non creare eroi e di cercare invece concreti percorsi di pace viene proposto per il rogo; immagino cosa faranno ai Padri Comboniani che si permettono di dichiarare l'indisponibilità a dare i sacramenti a chi partecipa a qualsiasi guerra (figuriamoci ad una profondamente sbagliata come quella in Iraq).
Ma alla condanna da chi dissente dal "dolore di massa" che non significa affatto distacco dalla solidarietà per la sofferenza dei familiari delle vittime si sta unendo quello, che forse era inevitabile e cioè un accentuazione del rifiuto del diverso, dell'altro da noi. C'è chi soffia sul fuoco del razzismo confondendo la giusta guerra al terrorismo con la cacciata del mussulmano (non so se avete notato come sono cambiati i toni del Ministro degli Interni negli ultimi giorni). E allora proprio davanti al dramma di vite umane che hanno perso la vita, forse sinceramente convinti di andare in missione di pace, non sarebbe il caso che i giornali e le televisioni o il mondo della cultura e
della politica cosiddetta progressista, avessero il coraggio di riflettere una volta per tutte sulle cause quotidiane che portano alla guerra, di come imboccare "IL SENTIERO DELLA PACE", che forse si costruisce dal basso mettendo da parte l'esigenza di avere santi ed eroi e riscoprire invece Maestri di pace e Profeti. Ho sentito in tutte le televisioni interviste a dir poco assurde che non facevano altro che mettere in evidenza il pianto e l'esaltazione di eroi morti per la "Pace". Scusatemi ma quanta ipocrisia e che distanza dai necessari messaggi di pace e di non violenza.
Vi dicevo che questa riflessione ad alta voce non ha nessuna pretesa se non quella appunto di pensare, di porsi domande ma anche la voglia di non farsi schiacciare dalla massificazione imposta dai mezzi d'informazione (soprattutto le televisioni forse sono diventate in massima parte mezzi di spettacolarizzazione). Ed è proprio sulla spettacolarizzazione della sofferenza e della morte che credo vada avviata una profonda riflessione. La nostra società non ha più, nel quotidiano, gli strumenti per convivere con la sofferenza e la morte e quindi con due dimensioni ineliminabili della nostra esistenza. Quest'assenza ed incapacità porta ad esorcizzare sofferenza e morte con la spettacolarizzazione, con una fuga non nella dimensione ludica dell'esistere il che sarebbe un fatto anche positivo, ma nel puro consumo del fare, quasi sempre passivo, per cercare di riempire i vuoti, il non saper più comunicare, il non saper darsi gratuitamente all'altro.
In questi giorni sto studiando dei libri molto belli che invitano a riflettere sulle cause dell'olocausto e devo dire che davanti ad avvenimenti come quello di questi giorni che massificano le coscienze ho paura che la preoccupazione di Bauman sui mali della società moderna (io direi anche post - moderna) che contiene in se i germi del ripetersi dell'olocausto purtroppo sono drammaticamente veri. C'è un bisogno estremo di cercare la strada di un nuovo umanesimo e non aver paura di riscoprire il linguaggio dell'utopia; a proposito di maestri Balducci diceva che per cercare l'uomo nuovo, dentro e fuori di noi, bisognava andare oltre la storia e ripartire dalla preistoria, forse è il momento di capire sul serio che la testimonianza dell'essere quotidianamente operatori di pace non è più rinviabile. Le sfere della politica e della cultura dovrebbero avere il ruolo di dare opportunità sociali che rendano praticabili le dimensioni della solidarietà, del pluralismo e dell'altruismo in contrapposizione al tecnicismo disumanizzante, agli eccessi dell'arrivismo, della gerarchizzazione sociale, dell'avere. Bisogna capire fino in fondo che il vicino che ci da sicurezza non può essere solo quello della porta accanto o di cui abbiamo una conoscenza personale. Non dobbiamo assolutamente rinunciare ai nostri valori e alla nostra cultura e
dobbiamo pretenderne il rispetto ma sempre mantenendo aperti cervello, cuore e anima alla profonda comprensione dell'alterità che è fuori di noi ma anche dentro di noi se ci sforziamo di cercarla.
Paolo Piacentini [da una e-mail]
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