L’inglese William John Charles Moens, agente di Borsa a Londra, inizia il suo viaggio nel sud d’Italia il 12 gennaio 1865, partendo da Palermo che aveva raggiunta dopo una rapida traversata in piroscafo da Marsiglia. Aveva 31 anni. L’accompagna la moglie Anne Warlters, figlia di un proprietario terriero, che aveva sposata cinque mesi prima.
Moens per documentare i luoghi che vede, anziché tavolozza e pennelli, usa la macchina fotografica.
Il capobrigante Gaetano Manzo, che rapì Moens, era di quattro anni e mezzo più giovane di lui, essendo nato il 1° dicembre 1837. Avrebbe fatto il “formaggiaro” per tutta la vita, se non fosse stato vittima – come scrive la curatrice del libro Madeline Merlini – di un sopruso da parte del sindaco di Acerno al momento dell’estrazione a sorte per la leva del gennaio 1861.
Nel libro si alternano estratti dal diario di Annie Moens e dal diario di William Moens. La narrazione dei fatti è vista sia con l’occhio del rapito che con quello di chi deve pagare il riscatto.
La stesura del “Diario” si basa solo in minima parte su note prese al momento del verificarsi dei fatti, è più consistentemente una rielaborazione successiva. Moens, durante i mesi del sequestro, scriveva i suoi appunti su un’agendina Letts’s che aveva in tasca quando era stato catturato. Manzo prima di rilasciare Moens aveva strappato le pagine dell’agendina per timore che gli appunti potessero essere utilizzati contro la sua banda. Ma Moens era stato preveggente: «Invece qualche giorno prima avevo strappato le pagine dell’agendina Letts’s su cui avevo veramente preso appunti e le avevo nascoste nella fodera del gilè. Poi annotai ancora qualche pagina in modo che Manzo la potesse strappare, cosa che fece appena gli consegnai l’agendina. Gli appunti salvati sono stati invece utilissimi nella stesura di queste pagine: grazie ad essi ho potuto stabilire la data esatta dei nostri spostamenti e molti altri dettagli che altrimenti mi sarebbero sfuggiti».
Il libro di Moens fu pubblicato in Inghilterra, suscitando un certo interesse, nel 1866, l’anno dopo del sequestro. In Italia invece si è dovuto aspettare, per vedere la traduzione curata da Madeline Merlini, il 1977.
I briganti vengono quasi invocati fin dalle prime pagine del libro. A Palermo «nessuno osa avventurarsi oltre le porte della città per paura dei briganti, e, di conseguenza, la loro passeggiata è limitata alle due miglia che occorrono per percorrere la città e la Marina». «Sovente sentiamo parlare dei briganti, e ci dicono che i contadini sono tutti armati e che la campagna palermitana è in uno stato di fermento». «Come si può immaginare io temevo di imbattermi in qualche brigante, e il mio cuore ebbe un sussulto quando vidi alcuni uomini armati avanzare verso di noi. Ma, si trattava di innocui cacciatori». «Non so perché i turisti e gli ospiti degli alberghi si sentono al sicuro. Qualche volta penso che gli albergatori paghino una tangente ai briganti». «Ci dissero che sarebbe stata una follia cercare di arrivare a Palermo via terra. Per farlo avremmo dovuto avere una grossa scorta di militari ma, anche in questo caso, molto probabilmente i briganti ci avrebbero assalito e forse sequestrato». Sono questi solo alcuni passi dove, nelle prime pagine del libro, si parla frequentemente e ossessivamente di briganti.
E finalmente a pagina 66 i briganti arrivano veramente. «Ero stanchissima ed essendomi addormentata, fui improvvisamente svegliata dal grido della signora Aynsley: “Ecco veramente i briganti!”», scrive Anne Warlters.
E’ il 15 maggio 1865. Siamo in Campania sulla strada che porta a Battipaglia, verso sera. Insieme a William Moens viene rapito anche il compagno di viaggio Murray Aynsley, che verrà liberato qualche giorno dopo. Nella stessa giornata, apprendiamo da una nota, dalla banda Manzo vengono anche sequestrati Buonaventura Luzzi, Alfonso e Aniello Cuomo, Antonio di Muro, Pasquale Cerrone di Acerno e Giuseppe Farina di Sanseverino. Una bella retata.
Comincia per Moens un continuo peregrinare per i monti campani presso Salerno, che durerà centodue giorni.
Non furono giorni facili, né per i sequestrati né per i briganti. Fame, sete, malattie, sporcizia, pidocchi, piogge, freddo, caldo erano loro compagni. Scrive Moens: « Avevo molta fame perché ero al digiuno dal giorno prima. Continuavo a chiedere del pane, ma dicevano che la presenza di pattuglie impediva loro di andare a procurarsene. … Piovve tutta la notte e c’era un vento così tagliente che ci svegliammo, se possibile, ancora più infreddoliti e intirizziti del solito. … Sono esposto alle inclemenze del tempo: muoio di fame, di freddo e di angoscia. … Portavo gli stessi abiti da quasi un mese e non mi era mai stato concesso di lavarmi. … Prima non avevo nemmeno visto un pidocchio, e rimasi inorridito quando constatai di esserne coperto. … Ho avuto spaventosi attacchi di diarrea perché mangio poco e male. … Rimanemmo in quel posto fino al 16 luglio. Faceva molto caldo e io avevo sempre sete. … Non assaggiai altro cibo per tre giorni. … Dovevo curarmi le piaghe con molta attenzione, perché lo stato di sporcizia in cui mi trovavo, visto che i miei custodi non mi permettevano di lavarmi, presto facevano peggiorare ogni ferita. … Di giorno in giorno diventavo sempre più debole, fino a quando non riuscii più a parlare ma solo a sussurrare invocando la morte».
Il brigantaggio – scrive Moens – non potrebbe sussistere, senza l’omertà dei contadini, che si lasciano tentare dai prezzi alti che i briganti sono disposti a pagare per avere cibo. «Prima di fornire qualunque oggetto ai banditi, i contadini si fanno pagare in anticipo e salatamene. I quattro quinti del denaro estorto con i rapimenti finiscono in tasca ai contadini, e il resto viene speso per acquisti in città. Non c’è da meravigliarsi che i contadini favoriscano il brigantaggio e appoggino la causa di Francesco II». Si attua così – scrive la Merlini – una forma di rudimentale redistribuzione della ricchezza.
Solo gli uomini che partecipano al rapimento hanno diritto ad una parte del bottino. Tolte le spese generali, la restante parte viene divisa in parti uguali fra tutti.
Diverso e contrapposto è il comportamento tenuto nella gestione dei sequestri fra le autorità civili e quelle militari. «Mentre le autorità civili sapevano tutto quello che i miei amici stavano facendo e assicuravano la loro collaborazione, consentendo al Signor Visconti di inoltrare il denaro, le autorità militari erano decise a impedire che il riscatto giungesse ai briganti».
Nel libro viene anche documentato il reciproco interesse che nasce fra Moens e i suoi rapitori, ed in primis con il capo Manzo; una specie di “Sindrome di Stoccolma”. Addirittura, in seguito ai meravigliosi racconti del rapito sulla California e l’Australia, dove si trovava oro scavando la terra, i briganti propongono a “don Guglielmo” Moens di averlo come capo in una improbabile spedizione in quelle terre. I briganti non sono visti come delinquenti, ma come uomini e donne degni di interesse, di simpatia e persino di rispetto. Scrive la Merlini: «La natura puramente “criminale” del brigantaggio meridionale è smentita dal Moens si può dire ad ogni pagina».
Quando il capobrigante Manzo chiese al rapito Moens, prima di rilasciarlo, su cosa avrebbe detto al Prefetto a proposito della banda, Moens rispose che avrebbe detto «che Manzo e la sua banda di trenta uomini avevano sfidato un esercito di diecimila soldati e che lui aveva dimostrato di essere il più bravo».
Per il rilascio di Moens, avvenuto la notte del 25 agosto 1865 sulla strada fra Acerno e Giffoni, fu pagato complessivamente, in diverse rate, un riscatto di 30.000 ducati, pari a 5.100 sterline di allora. Una somma considerevole, ma piccola cosa rispetto al patrimonio di Moens.
Rocco Biondi
William Moens, Briganti italiani e viaggiatori inglesi, a cura di Madeline Merlini, TEA, Milano 1997, pp. 254
27 gennaio 2008
20 gennaio 2008
Tutte le donne della mia vita, film di Simona Izzo
Secondo film del Cineforum Grottaglie 2008
Film domenicale, con qualche tetta e tentativo finale di pensierino laico moralista. Chi non lo vede non si perde assolutamente niente.
Trama e recensione
Un misterioso individuo si trova all'interno di una camera iperbarica, tra la vita e la morte, a causa di un embolo.
Con toni inquietanti apre la nuova fatica di Simona Izzo, la quale torna dietro la macchina da presa, quattro anni dopo "Io no" (2003), per raccontare il viaggio nei ricordi di Davide, cui concede anima e corpo Luca Zingaretti ("Vite strozzate"), raffinato cuoco e grande seduttore, intento a ripercorrere alcuni momenti fondamentali della sua vita attraverso le figure femminili più importanti.
Si comincia con la sofisticata gourmet Isabella, interpretata da Rosalinda Celentano ("Palermo-Milano solo andato"), per la quale ha abbandonato sia la cucina che la compagna Barbara, con il volto di Barbara Mautino ("Non ho sonno"), proprietaria del locale in cui lavora.
E' poi la volta della biologa Stefania, con le fattezze di Michela Cescon ("Primo amore"), cui seguono la splendida giornalista-cuoca Monica, dalla quale avrà anche un figlio, e Laura, rispettivamente interpretate da Vanessa Incontrada ("Quale amore") e Jane Alexander ("Prendimi l'anima").
E' immediatamente evidente, quindi, quel certo parallelismo che lo script, concepito dalla stessa Izzo in collaborazione con l'inseparabile Graziano Diana ("Canone inverso") e Alexandra La Capria ("Gas"), tenta di sviluppare tra donne e cibo; tanto che le prime, generosamente nude in scena, finiscono per apparire in qualità di appetitose pietanze che vengono progressivamente gustate da Davide, il quale non sembra essere troppo lontano da una versione matura dell'Alfie protagonista dell'omonimo film.
Peccato, però, che questo ennesimo spaccato ironico-sentimentale, volto in maniera decisamente banale a ribadire che il vero segreto per poter apprezzare le cose risiede nella capacità di tornare ai sapori primordiali, risulti del tutto indigesto, riuscendo raramente nell'impresa di strappare qualche risata e lasciando emergere il notevole spreco di contorno, comprendente, tra gli altri, l'ottimo Francesco Benigno ("Mery per sempre"), la veterana Lisa Gastoni ("Grazie zia") ed il piccolo esordiente su grande schermo Guido Ripanti, già apprezzato nella fiction televisiva "Raccontami".
Tra noia e ripetitività, infatti, mentre si tenta perfino la carta del lirismo ad ogni costo, ricaviamo soltanto l'ulteriore conferma delle discutibili doti dell'autrice, incapace di fondere la tragedia con la leggerezza.
Ed il tutto viene condito con la colonna sonora di Ennio Morricone, fin troppo simile a quella composta per "C'era una volta in America" (1984), tanto che, nel corso della visione, l'unico vero brivido sulla pelle riusciamo a provarlo nel momento in cui ci viene fatta ascoltare l'intramontabile "Se telefonando" di Mina, non a caso tra i brani storici del curriculum del maestro.
Francesco Lomuscio in http://filmup.leonardo.it/tutteledonnedellamiavita.htm
Cast Luca Zingaretti, Vanessa Incontrada, Michela Cescon, Lisa Gastoni, Rosalinda Celentano, Ricky Tognazzi, Elena Bouryka, Francesco Benigno, Claudio Bigagli, Eros Galbiati
Regia Simona Izzo
Sceneggiatura Graziano Diana, Simona Izzo
Durata 01:44:00
Data di uscita Venerdì 13 Aprile 2007
Genere Commedia
Distribuito da EAGLE PICTURES
Regia Simona Izzo
Sceneggiatura Graziano Diana, Simona Izzo
Durata 01:44:00
Data di uscita Venerdì 13 Aprile 2007
Genere Commedia
Distribuito da EAGLE PICTURES
13 gennaio 2008
Il velo dipinto, film di John Curran
Primo film del Cineforum Grottaglie 2008
Film dei buoni sentimenti. Ci si può incontrare per caso. Si può imparare a conoscersi. Un bel film coinvolgente. Con la tentazione di ritenerlo un bel polpettone. L’amore ai tempi del colera. Molto bravi gli attori Naomi Watts e Edward Norton. A me è piaciuta tanto l’interpretazione di Toby Jones, l’ispettore Waddington. Splendide immagini della Cina degli anni Venti. Musica accattivante. Tratto dall’omonimo romanzo di Somerset Maugham del 1925. Nel 1934 ne era stata tratta un’altra famosa trasposizione filmica, con Greta Garbo nel ruolo della protagonista. Se ne consiglia comunque la visione.
Trascrivo un botta e risposta tra i due protagonisti: «In genere non parlo quando non ho niente da dire». «Se tutti noi parlassimo solo quando abbiamo qualcosa da dire, l'umanità perderebbe molto presto l'uso della parola».
Trama
Inghilterra, 1925. Kitty è una giovane donna dell'alta società inglese che viene messa sotto pressione dalla madre perché trovi un marito. La scelta cade sul dottor Walter Fane, un serio batteriologo dal futuro promettente ma dalle origini tutt'altro che nobili. Subito dopo le nozze, la coppia si trasferisce a Shanghai e Kitty, troppo spesso sola e annoiata, ben presto trova conforto nell'amicizia con Charlie Townsend, il viceconsole inglese di cui poi s'innamora, ricambiata. Venuto a conoscenza del tradimento della moglie, Fane decide di trasferirsi a Wei-tan-fu, una remota località all'interno del territorio cinese funestata da un'epidemia di colera. L'estremo isolamento aiuterà Kitty e Walter a riavvicinarsi l'un l'altro superando rancori e difficoltà.
Regia: John Curran
Cast: Naomi Watts, Edward Norton, Liev Schreiber, Diana Rigg, Toby Jones, Alan David, Li Feng, Anthony Wong chau-sang, Xia Yu, Juliet Howland
Sceneggiatura: Ron Nyswaner
Durata: 01:40:00
Data di uscita: Venerdì 23 Febbraio 2007
Premi: Golden Globe 2007 per la miglior colonna sonora.
Film dei buoni sentimenti. Ci si può incontrare per caso. Si può imparare a conoscersi. Un bel film coinvolgente. Con la tentazione di ritenerlo un bel polpettone. L’amore ai tempi del colera. Molto bravi gli attori Naomi Watts e Edward Norton. A me è piaciuta tanto l’interpretazione di Toby Jones, l’ispettore Waddington. Splendide immagini della Cina degli anni Venti. Musica accattivante. Tratto dall’omonimo romanzo di Somerset Maugham del 1925. Nel 1934 ne era stata tratta un’altra famosa trasposizione filmica, con Greta Garbo nel ruolo della protagonista. Se ne consiglia comunque la visione.
Trascrivo un botta e risposta tra i due protagonisti: «In genere non parlo quando non ho niente da dire». «Se tutti noi parlassimo solo quando abbiamo qualcosa da dire, l'umanità perderebbe molto presto l'uso della parola».
Trama
Inghilterra, 1925. Kitty è una giovane donna dell'alta società inglese che viene messa sotto pressione dalla madre perché trovi un marito. La scelta cade sul dottor Walter Fane, un serio batteriologo dal futuro promettente ma dalle origini tutt'altro che nobili. Subito dopo le nozze, la coppia si trasferisce a Shanghai e Kitty, troppo spesso sola e annoiata, ben presto trova conforto nell'amicizia con Charlie Townsend, il viceconsole inglese di cui poi s'innamora, ricambiata. Venuto a conoscenza del tradimento della moglie, Fane decide di trasferirsi a Wei-tan-fu, una remota località all'interno del territorio cinese funestata da un'epidemia di colera. L'estremo isolamento aiuterà Kitty e Walter a riavvicinarsi l'un l'altro superando rancori e difficoltà.
Regia: John Curran
Cast: Naomi Watts, Edward Norton, Liev Schreiber, Diana Rigg, Toby Jones, Alan David, Li Feng, Anthony Wong chau-sang, Xia Yu, Juliet Howland
Sceneggiatura: Ron Nyswaner
Durata: 01:40:00
Data di uscita: Venerdì 23 Febbraio 2007
Premi: Golden Globe 2007 per la miglior colonna sonora.
Cineforum Grottaglie 2008 - Programma
CINECIRCOLO “MONTICELLO”
Padri Gesuiti – Via K. Marx, 1 – Grottaglie (TA)
CINEFORUM 2008
"Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell'Oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi". (Agostino d'Ippona, Confessioni, X, 8, 15)
PROGRAMMA
13 Gennaio - Il velo dipinto - J. Curran
20 Gennaio - Tutte le donne della mia vita - S. Izzo
3 Febbraio - Una notte al museo - S. Levy
10 Febbraio - Il mio miglior amico - P. Leconte
17 Febbraio - Rosso come il cielo - C. Bortone
24 Febbraio - Salvador - 26 anni contro - M. Huerga
2 Marzo – La masseria delle allodole - V. e P. Taviani
9 Marzo - Centochiodi - E. Olmi
16 Marzo - L'aria salata - A. Angelini
30 Marzo - La giusta distanza - C. Mazzacurati
6 Aprile - Giardini d'autunno - O. losseliani
13 Aprile - Lezioni di volo - F. Archibugi
Il programma può subire variazioni per motivi indipendenti dalla volontà degli organizzatori.
QUOTE SOCIALI: Giovani (16-25 anni) € 23,00 - Adulti € 28,00
Unica proiezione: ore 18:30 - Teatro “Monticello” dei Padri Gesuiti
Via K. Marx, 1 - Grottaglie
PRESENTAZIONE
Cineforum o semplice rassegna cinematografica?
Se vogliamo essere onesti è una rassegna cinematografica che di tanto in tanto, quando il soggetto del film tocca nervi scoperti e interessi personali; o scopre il vaso di Pandora, si qualifica nel dibattito.
E' tuttavia raro che un film provochi reazioni così viscerali; cosicché, terminata la proiezione, il pubblico si alza ed esce dalla sala, spesso senza leggere i titoli di coda.
E' quello il momento in cui i responsabili del Cineforum avvertono un profondo senso di frustrazione, se non di fallimento. Si tratta però di una percezione errata, perché gli spettatori, anche se abbandonano la sala evitando il dibattito, portano con sé sentimenti, riflessioni, emozioni che la visione del film ha suscitato e che faranno parte, in ogni caso, del bagaglio culturale di ciascuno; fermenti che, pur sedimentati nel tempo, affioreranno in occasione di discussioni, confronti, dibattiti, anche scelte di vita.
Né va trascurata la possibilità che la visione di un film possa essere stimolo per i giovani a cimentarsi nell'arte della cinematografia e portare alla scoperta di nuovi talenti.
La programmazione di quest'anno svolgerà un unico grande tema: la cura dell'uomo per l'uomo e per il creato.
Un tema che Sant'Agostino, mirabilmente, chiarisce così nelle sue “Confessioni”: «Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell'oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi».
I film scelti per la stagione 2008, tranne qualcuno che è di puro svago, pongono l’uomo al centro, con gli errori, i sentimenti, i bisogni, i mutamenti legati alla sua esistenza: un percorso che è un modo per prenderci cura della nostra umanità.
Questi i sottotemi: solitudine e amicizia (“Il mio migliore attico”), redenzione e crescita nell'esperienza del dolore (“Il velo dipinto” e “Lezioni di volo”), la denuncia civile (“Salvador - 26 anni contro” e “Masseria delle allodole”), l'handicap, il talento e la lotta per la vita (“Rosso come il cielo”), il rapporto tra cultura e umanità (“Centochiodi”), la presenza del male nella società e il rapporto tra il giornalista e la notizia (“La giusta distanza”), il contrasto tra potere e gusto delta vita (“Giardini d'autunno”), uno sguardo alla realtà estrema del carcere (“L’ aria salata”).
I Responsabili
Padri Gesuiti – Via K. Marx, 1 – Grottaglie (TA)
CINEFORUM 2008
"Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell'Oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi". (Agostino d'Ippona, Confessioni, X, 8, 15)
PROGRAMMA
13 Gennaio - Il velo dipinto - J. Curran
20 Gennaio - Tutte le donne della mia vita - S. Izzo
3 Febbraio - Una notte al museo - S. Levy
10 Febbraio - Il mio miglior amico - P. Leconte
17 Febbraio - Rosso come il cielo - C. Bortone
24 Febbraio - Salvador - 26 anni contro - M. Huerga
2 Marzo – La masseria delle allodole - V. e P. Taviani
9 Marzo - Centochiodi - E. Olmi
16 Marzo - L'aria salata - A. Angelini
30 Marzo - La giusta distanza - C. Mazzacurati
6 Aprile - Giardini d'autunno - O. losseliani
13 Aprile - Lezioni di volo - F. Archibugi
Il programma può subire variazioni per motivi indipendenti dalla volontà degli organizzatori.
QUOTE SOCIALI: Giovani (16-25 anni) € 23,00 - Adulti € 28,00
Unica proiezione: ore 18:30 - Teatro “Monticello” dei Padri Gesuiti
Via K. Marx, 1 - Grottaglie
PRESENTAZIONE
Cineforum o semplice rassegna cinematografica?
Se vogliamo essere onesti è una rassegna cinematografica che di tanto in tanto, quando il soggetto del film tocca nervi scoperti e interessi personali; o scopre il vaso di Pandora, si qualifica nel dibattito.
E' tuttavia raro che un film provochi reazioni così viscerali; cosicché, terminata la proiezione, il pubblico si alza ed esce dalla sala, spesso senza leggere i titoli di coda.
E' quello il momento in cui i responsabili del Cineforum avvertono un profondo senso di frustrazione, se non di fallimento. Si tratta però di una percezione errata, perché gli spettatori, anche se abbandonano la sala evitando il dibattito, portano con sé sentimenti, riflessioni, emozioni che la visione del film ha suscitato e che faranno parte, in ogni caso, del bagaglio culturale di ciascuno; fermenti che, pur sedimentati nel tempo, affioreranno in occasione di discussioni, confronti, dibattiti, anche scelte di vita.
Né va trascurata la possibilità che la visione di un film possa essere stimolo per i giovani a cimentarsi nell'arte della cinematografia e portare alla scoperta di nuovi talenti.
La programmazione di quest'anno svolgerà un unico grande tema: la cura dell'uomo per l'uomo e per il creato.
Un tema che Sant'Agostino, mirabilmente, chiarisce così nelle sue “Confessioni”: «Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell'oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi».
I film scelti per la stagione 2008, tranne qualcuno che è di puro svago, pongono l’uomo al centro, con gli errori, i sentimenti, i bisogni, i mutamenti legati alla sua esistenza: un percorso che è un modo per prenderci cura della nostra umanità.
Questi i sottotemi: solitudine e amicizia (“Il mio migliore attico”), redenzione e crescita nell'esperienza del dolore (“Il velo dipinto” e “Lezioni di volo”), la denuncia civile (“Salvador - 26 anni contro” e “Masseria delle allodole”), l'handicap, il talento e la lotta per la vita (“Rosso come il cielo”), il rapporto tra cultura e umanità (“Centochiodi”), la presenza del male nella società e il rapporto tra il giornalista e la notizia (“La giusta distanza”), il contrasto tra potere e gusto delta vita (“Giardini d'autunno”), uno sguardo alla realtà estrema del carcere (“L’ aria salata”).
I Responsabili
9 gennaio 2008
Raffaele Del Pozzo - Fotografo dei Briganti, di Ugo Di Pace
Nella seconda metà dell’ottocento, l’egemonia della rappresentazione realistica, un tempo prerogativa della pittura e del disegno, passa alla nuova invenzione della fotografia, che da consumo di élite si trasforma in mezzo di comunicazione di massa.
Il brigantaggio diede vita ad un vero e proprio genere fotografico, che si sviluppò nel meridione d’Italia.
Il brigantaggio sotto il regime borbonico aveva assunto il ruolo di una forza molto spesso funzionale allo Stato. Da qui nasceva una rappresentazione visiva enfatica e pittoresca; circolava nelle popolazioni un’iconografia fantastica che presentava il brigante come il giustiziere che taglieggiava i ricchi per beneficiare i poveri.
Quando, con l’Unità d’Italia e l’annessione del Sud, Cialdini, La Marmora e il generale Pallavicini capirono che il brigantaggio poteva mettere in discussione persino il processo di unificazione si affrettarono a dare del brigante un’immagine negativa. E i fotografi dell’epoca furono utilizzati per questa esigenza del potere.
Raffaele Del Pozzo fu uno di questi fotografi organici al potere. Nacque nel 1828 a Gauro, una frazione di Montecorvino Rovella, che oltre ad essere patria di briganti è anche al centro di un crocevia dove operarono le più note bande brigantesche della zona. Conosceva quindi molto bene quei luoghi, allora isolati e poco accessibili, teatro di scontri fra l’esercito piemontese e i briganti. Si presume quindi che venisse chiamato dalle forze dell’ordine anche per questa sua specifica competenza.
I briganti venivano fotografati quando ormai erano stati catturati o uccisi. Si voleva così infrangere il mito, tanto diffuso allora, che i briganti fossero imprendibili.
Del Pozzo nel carcere di Campagna fotografa il capobrigante Ciardullo e alcuni della sua banda, a Salerno riprende il vice capobanda Spinelli alla vigilia della fucilazione, a Acerno fotografa il celebre brigante Manzo, allora ancora in libertà, a Postiglione documenta l’arresto di alcuni componenti della banda Scarapecchia.
Sul retro di queste fotografie, ora conservate in musei o collezioni private, vi è il timbro dello studio fotografico di Raffaele Del Pozzo.
Nell’archivio privato di Giovanni Wenner, Ugo Di Pace ha trovato il carteggio relativo al sequestro, ad opera del brigante Gaetano Manzo, di cui era stato vittima nel 1865 l’antenato Federico Wenner. Fra quei documenti vi sono anche tre negativi – legati al sequestro – realizzati da Raffaele Del Pozzo. La prima fotografia, ripresa ad Acerno da del Pozzo sicuramente su richiesta dell’industriale svizzero, raffigura i sequestrati al momento del rilascio; la seconda foto, di un mese dopo, rappresenta il brigante Manzo e quattro della sua banda alla vigilia della loro costituzione; la terza è una foto della maestosa villa dei Wenner a Pellezzano in provincia di Salerno.
Ugo Di Pace, a proposito del rapporto tra brigantaggio e fotografia, scrive: «In pochi altri paesi occidentali si verificò nell'800 una rivolta sociale come quella del Mezzogiorno; in pochi altri paesi, in quegli anni, i fotografi furono impegnati a rappresentare visivamente una classe sociale emarginata e cacciata fuori dalla storia. Vista in tale luce, la produzione fotografica dei briganti acquista un pregio di rarità e per una tragica e sfortunata contingenza storica possiamo dire di essere l'unico paese a conservare, seppure in maniera approssimativa, immagini di valore davvero notevole. E in questa cornice va collocata l'opera di Raffaele Del Pozzo, un autore che ha saputo dare alle popolazioni salernitane una rappresentazione visiva dei loro antenati, che se non fossero stati briganti, ironia della sorte, non avrebbero avuto neppure il premio di essere fotografati».
A corredo del saggio di Ugo Di Pace è riprodotto un repertorio di 36 fotografie scattate da Raffele Del Pozzo. Fra di esse vi sono le foto dei seguenti briganti, vivi o morti: cadaveri di Gaetano Tancredi detto Tranchella e altri due della sua banda, Antonio Maratea detto Ciardullo e parte della sua banda, Vincenzo Spinelli, Vito Del Giorno, Lorenzo Guerriero, Giustino Cuozzo, Gaetano Manzo e atri della sua banda, Sabato Ferullo, Francesco Nicastro, Nunziante D’Agostino, Chiara Di Nardo, Banda Scarapecchia, i cadaveri di quattro briganti della banda Ciardullo, Donato De Martino, Salvatore Vivolo, Crescenzo Pantalena, Raffaele Luongo, Antonio Bottone, Pietro De Giorgio, Giovanni Marcantuono, Giuseppe Alfinito. La maggioranza di queste foto furono scattate in carcere dopo l’arresto, altre sono foto private successivamente diventate segnaletiche.
Rocco Biondi
Ugo Di Pace, Raffaele Del pozzo - Fotografo dei Briganti, saggio allegato al libro di Johann Jakob Lichtensteiger: Quattro mesi fra i briganti (1865/66), Avagliano Editore, Cava dei Tirreni 1984, pp. 107-176
Il brigantaggio diede vita ad un vero e proprio genere fotografico, che si sviluppò nel meridione d’Italia.
Il brigantaggio sotto il regime borbonico aveva assunto il ruolo di una forza molto spesso funzionale allo Stato. Da qui nasceva una rappresentazione visiva enfatica e pittoresca; circolava nelle popolazioni un’iconografia fantastica che presentava il brigante come il giustiziere che taglieggiava i ricchi per beneficiare i poveri.
Quando, con l’Unità d’Italia e l’annessione del Sud, Cialdini, La Marmora e il generale Pallavicini capirono che il brigantaggio poteva mettere in discussione persino il processo di unificazione si affrettarono a dare del brigante un’immagine negativa. E i fotografi dell’epoca furono utilizzati per questa esigenza del potere.
Raffaele Del Pozzo fu uno di questi fotografi organici al potere. Nacque nel 1828 a Gauro, una frazione di Montecorvino Rovella, che oltre ad essere patria di briganti è anche al centro di un crocevia dove operarono le più note bande brigantesche della zona. Conosceva quindi molto bene quei luoghi, allora isolati e poco accessibili, teatro di scontri fra l’esercito piemontese e i briganti. Si presume quindi che venisse chiamato dalle forze dell’ordine anche per questa sua specifica competenza.
I briganti venivano fotografati quando ormai erano stati catturati o uccisi. Si voleva così infrangere il mito, tanto diffuso allora, che i briganti fossero imprendibili.
Del Pozzo nel carcere di Campagna fotografa il capobrigante Ciardullo e alcuni della sua banda, a Salerno riprende il vice capobanda Spinelli alla vigilia della fucilazione, a Acerno fotografa il celebre brigante Manzo, allora ancora in libertà, a Postiglione documenta l’arresto di alcuni componenti della banda Scarapecchia.
Sul retro di queste fotografie, ora conservate in musei o collezioni private, vi è il timbro dello studio fotografico di Raffaele Del Pozzo.
Nell’archivio privato di Giovanni Wenner, Ugo Di Pace ha trovato il carteggio relativo al sequestro, ad opera del brigante Gaetano Manzo, di cui era stato vittima nel 1865 l’antenato Federico Wenner. Fra quei documenti vi sono anche tre negativi – legati al sequestro – realizzati da Raffaele Del Pozzo. La prima fotografia, ripresa ad Acerno da del Pozzo sicuramente su richiesta dell’industriale svizzero, raffigura i sequestrati al momento del rilascio; la seconda foto, di un mese dopo, rappresenta il brigante Manzo e quattro della sua banda alla vigilia della loro costituzione; la terza è una foto della maestosa villa dei Wenner a Pellezzano in provincia di Salerno.
Ugo Di Pace, a proposito del rapporto tra brigantaggio e fotografia, scrive: «In pochi altri paesi occidentali si verificò nell'800 una rivolta sociale come quella del Mezzogiorno; in pochi altri paesi, in quegli anni, i fotografi furono impegnati a rappresentare visivamente una classe sociale emarginata e cacciata fuori dalla storia. Vista in tale luce, la produzione fotografica dei briganti acquista un pregio di rarità e per una tragica e sfortunata contingenza storica possiamo dire di essere l'unico paese a conservare, seppure in maniera approssimativa, immagini di valore davvero notevole. E in questa cornice va collocata l'opera di Raffaele Del Pozzo, un autore che ha saputo dare alle popolazioni salernitane una rappresentazione visiva dei loro antenati, che se non fossero stati briganti, ironia della sorte, non avrebbero avuto neppure il premio di essere fotografati».
A corredo del saggio di Ugo Di Pace è riprodotto un repertorio di 36 fotografie scattate da Raffele Del Pozzo. Fra di esse vi sono le foto dei seguenti briganti, vivi o morti: cadaveri di Gaetano Tancredi detto Tranchella e altri due della sua banda, Antonio Maratea detto Ciardullo e parte della sua banda, Vincenzo Spinelli, Vito Del Giorno, Lorenzo Guerriero, Giustino Cuozzo, Gaetano Manzo e atri della sua banda, Sabato Ferullo, Francesco Nicastro, Nunziante D’Agostino, Chiara Di Nardo, Banda Scarapecchia, i cadaveri di quattro briganti della banda Ciardullo, Donato De Martino, Salvatore Vivolo, Crescenzo Pantalena, Raffaele Luongo, Antonio Bottone, Pietro De Giorgio, Giovanni Marcantuono, Giuseppe Alfinito. La maggioranza di queste foto furono scattate in carcere dopo l’arresto, altre sono foto private successivamente diventate segnaletiche.
Rocco Biondi
Ugo Di Pace, Raffaele Del pozzo - Fotografo dei Briganti, saggio allegato al libro di Johann Jakob Lichtensteiger: Quattro mesi fra i briganti (1865/66), Avagliano Editore, Cava dei Tirreni 1984, pp. 107-176
8 gennaio 2008
Quattro mesi fra i briganti (1865/66), di Johann Jakob Lichtensteiger
Il sequestro di Lichtensteiger ad opera della banda di Gaetano Manzo si protrasse dal 13 ottobre 1865 al 10 febbraio 1866.
Teatro dell’operazione furono i Monti Picentini, uno dei massicci più estesi ed imponenti dell’Appennino meridionale, che si estendono in Campania a sud di Avellino tra l’Irpinia, il Salernitano e la Basilicata. Da quei monti nascono i fiumi Sele, Ofanto, Calore, Sabato, Irno, Picentino e Tusciano.
I Picentini, per le caratteristiche ambientali, sono sempre stati un’area di antiche e notevoli tradizioni brigantesche. Gli abitanti di quelle zone erano pastori, boscaioli, cacciatori, carbonai, che conoscevano le più riposte pieghe delle montagne e dei boschi. Quel terreno non si prestava a grosse bande, ma a piccoli e medi raggruppamenti, che raramente superavano i 20 componenti. Capi di quelle bande furono Francesco Cianci di Montella, Antonio Maratea Ciardullo di Campagna, Andrea Ferrigno di Acerno, Luigi Cerino di Montecorvino, Antonio Di Nardo di Montella, Gregorio Ricci di Battipaglia.
Ma il capo brigante che emerse su tutti fu Gaetano Manzo, caciaio di Acerno. La sua prima grossa impresa la compì il 15 maggio 1865 col clamoroso sequestro, presso Battipaglia, dei turisti inglesi Moens e Murray-Aynsley.
Successivo sequestro ad opera di Manzo fu appunto quello di Federico Wenner figlio dell’industriale Alberto Wenner, di Isacco Friedli istitutore della famiglia Wenner, di Giovan Giacomo Lichtensteiger disegnatore della ditta Wenner, di Rodolfo Gubler commesso della stessa ditta. Erano tutti di origine svizzera.
La società Wenner & C., fondata a Salerno nel 1835, era uno dei più moderni opifici tessili europei.
Io ho letto il libro di Lichtensteiger, quasi a dispetto di Sebastiano Martelli che nella introduzione propone una lettura più complessa, solo in chiave storiografica e documentaria, in quanto esso «fornisce una messe di dati, di informazioni sui movimenti delle bande, sugli sganciamenti dalle forze dell’ordine, sulle località dello scenario brigantesco, sulla rete di contatti, sui rapporti con i centri abitati, sulla struttura ed organizzazione della banda, sulla vita nei boschi, sulla tecnica delle trattative per il riscatto, sui codici di comportamento».
L’agguato lo tesero in nove. «Non temete, non vi sarà torto un capello; non si tratta di sangue ma di soldi», dissero. Il corteo si mise in marcia; era una specie di fila indiana; davanti alcuni briganti, al centro un brigante dietro ogni prigioniero, in coda il resto della banda.
Ci si accampava all’aperto, incuranti della pioggia che in quella stagione cadeva spesso e copiosa. «La pioggia scorreva giù a mo’ di diluvio universale, ed un forte vento ce la sferzava contro. La nostra sventura divenne per noi due volte più dura, poiché capitava proprio nella cattiva stagione delle piogge», scrive Lichtensteiger. Al calar della notte veniva acceso un grande fuoco per riscaldarsi ed asciugarsi; «nebbia e pioggia proteggevano dal rischio di essere scoperti».
Il vitto era buono. Dai briganti le provviste venivano pagate ai contadini «anticipatamente, al doppio del loro valore». Scrive ancora Lichtensteiger: «Eravamo tutti diventati palesemente più grassocci; la vita da marmotte, con pane e formaggio a sufficienza, spesso maccaroni e di quando in quando perfino carne, ci aveva fatto bene al fisico».
Per tutto il periodo del sequestro si fu quasi sempre in cammino, «su e giù per montagne, valli e campi, per prati e burroni, sempre il più possibile lontano da luoghi abitati». I fiumi i sequestrati li attraversavano sulle spalle dei rapitori.
Ma questo è ancora brigantaggio socio-politico? Nelle origini certamente sì. Anche per Manzo la causa scatenante dell’approdo brigantesco fu la renitenza alla leva. Resiste ancora l’adesione filoborbonica, l’avversione alla nuova monarchia ed al nuovo Stato unitario. Conta ancora molto il ruolo della Chiesa nella scelta del brigantaggio.
E anche dei soldi pagati per il riscatto pochi ne rimanevano ai briganti. Il brigante Manzo, dopo che è stata pagata l’ultima rimessa del riscatto, dice a Fritz Wenner: «Non maledite il denaro che il vostro signor papà ha dovuto pagare per voi! Ne è rimasto abbastanza poco nelle nostre mani».
Nel diario scritto da Isacco Friedli , altro sequestrato insieme a Wenner, leggiamo: «Così si comincia a capire che via prendono i soldi, come possa essere possibile che i briganti trovino tanti complici e dove si trovi effettivamente il nocciolo del male in queste province meridionali, se nei villaggi oppure nelle foreste». Molta gente che vive tranquillamente nel paese si arricchisce alle spalle dei briganti che si nascondono nei boschi.
Ugo Di Pace, che ha corredato il testo di Lichtensteiger con un apparato di note e con un appendice di documenti rari, nella seconda parte del libro ha scritto un interessantissimo saggio su Raffaele Del Pozzo, fotografo dei Briganti. Ma di questo scriverò in un prossimo post.
Rocco Biondi
Johann Jakob Lichtensteiger, Quattro mesi fra i briganti (1865/66), a cura di Ugo Di Pace, traduzione di Brigida Corrado e Antonella Chiellini, con un saggio su Raffaele Del Pozzo, fotografo dei Briganti, Avagliano Editore, Cava dei Tirreni 1984, pp. 186
Teatro dell’operazione furono i Monti Picentini, uno dei massicci più estesi ed imponenti dell’Appennino meridionale, che si estendono in Campania a sud di Avellino tra l’Irpinia, il Salernitano e la Basilicata. Da quei monti nascono i fiumi Sele, Ofanto, Calore, Sabato, Irno, Picentino e Tusciano.
I Picentini, per le caratteristiche ambientali, sono sempre stati un’area di antiche e notevoli tradizioni brigantesche. Gli abitanti di quelle zone erano pastori, boscaioli, cacciatori, carbonai, che conoscevano le più riposte pieghe delle montagne e dei boschi. Quel terreno non si prestava a grosse bande, ma a piccoli e medi raggruppamenti, che raramente superavano i 20 componenti. Capi di quelle bande furono Francesco Cianci di Montella, Antonio Maratea Ciardullo di Campagna, Andrea Ferrigno di Acerno, Luigi Cerino di Montecorvino, Antonio Di Nardo di Montella, Gregorio Ricci di Battipaglia.
Ma il capo brigante che emerse su tutti fu Gaetano Manzo, caciaio di Acerno. La sua prima grossa impresa la compì il 15 maggio 1865 col clamoroso sequestro, presso Battipaglia, dei turisti inglesi Moens e Murray-Aynsley.
Successivo sequestro ad opera di Manzo fu appunto quello di Federico Wenner figlio dell’industriale Alberto Wenner, di Isacco Friedli istitutore della famiglia Wenner, di Giovan Giacomo Lichtensteiger disegnatore della ditta Wenner, di Rodolfo Gubler commesso della stessa ditta. Erano tutti di origine svizzera.
La società Wenner & C., fondata a Salerno nel 1835, era uno dei più moderni opifici tessili europei.
Io ho letto il libro di Lichtensteiger, quasi a dispetto di Sebastiano Martelli che nella introduzione propone una lettura più complessa, solo in chiave storiografica e documentaria, in quanto esso «fornisce una messe di dati, di informazioni sui movimenti delle bande, sugli sganciamenti dalle forze dell’ordine, sulle località dello scenario brigantesco, sulla rete di contatti, sui rapporti con i centri abitati, sulla struttura ed organizzazione della banda, sulla vita nei boschi, sulla tecnica delle trattative per il riscatto, sui codici di comportamento».
L’agguato lo tesero in nove. «Non temete, non vi sarà torto un capello; non si tratta di sangue ma di soldi», dissero. Il corteo si mise in marcia; era una specie di fila indiana; davanti alcuni briganti, al centro un brigante dietro ogni prigioniero, in coda il resto della banda.
Ci si accampava all’aperto, incuranti della pioggia che in quella stagione cadeva spesso e copiosa. «La pioggia scorreva giù a mo’ di diluvio universale, ed un forte vento ce la sferzava contro. La nostra sventura divenne per noi due volte più dura, poiché capitava proprio nella cattiva stagione delle piogge», scrive Lichtensteiger. Al calar della notte veniva acceso un grande fuoco per riscaldarsi ed asciugarsi; «nebbia e pioggia proteggevano dal rischio di essere scoperti».
Il vitto era buono. Dai briganti le provviste venivano pagate ai contadini «anticipatamente, al doppio del loro valore». Scrive ancora Lichtensteiger: «Eravamo tutti diventati palesemente più grassocci; la vita da marmotte, con pane e formaggio a sufficienza, spesso maccaroni e di quando in quando perfino carne, ci aveva fatto bene al fisico».
Per tutto il periodo del sequestro si fu quasi sempre in cammino, «su e giù per montagne, valli e campi, per prati e burroni, sempre il più possibile lontano da luoghi abitati». I fiumi i sequestrati li attraversavano sulle spalle dei rapitori.
Ma questo è ancora brigantaggio socio-politico? Nelle origini certamente sì. Anche per Manzo la causa scatenante dell’approdo brigantesco fu la renitenza alla leva. Resiste ancora l’adesione filoborbonica, l’avversione alla nuova monarchia ed al nuovo Stato unitario. Conta ancora molto il ruolo della Chiesa nella scelta del brigantaggio.
E anche dei soldi pagati per il riscatto pochi ne rimanevano ai briganti. Il brigante Manzo, dopo che è stata pagata l’ultima rimessa del riscatto, dice a Fritz Wenner: «Non maledite il denaro che il vostro signor papà ha dovuto pagare per voi! Ne è rimasto abbastanza poco nelle nostre mani».
Nel diario scritto da Isacco Friedli , altro sequestrato insieme a Wenner, leggiamo: «Così si comincia a capire che via prendono i soldi, come possa essere possibile che i briganti trovino tanti complici e dove si trovi effettivamente il nocciolo del male in queste province meridionali, se nei villaggi oppure nelle foreste». Molta gente che vive tranquillamente nel paese si arricchisce alle spalle dei briganti che si nascondono nei boschi.
Ugo Di Pace, che ha corredato il testo di Lichtensteiger con un apparato di note e con un appendice di documenti rari, nella seconda parte del libro ha scritto un interessantissimo saggio su Raffaele Del Pozzo, fotografo dei Briganti. Ma di questo scriverò in un prossimo post.
Rocco Biondi
Johann Jakob Lichtensteiger, Quattro mesi fra i briganti (1865/66), a cura di Ugo Di Pace, traduzione di Brigida Corrado e Antonella Chiellini, con un saggio su Raffaele Del Pozzo, fotografo dei Briganti, Avagliano Editore, Cava dei Tirreni 1984, pp. 186
2 gennaio 2008
Briganti. Fotografia e malavita nella Sicilia dell’Ottocento, di Paolo Morello
Per chi vuole cominciare a interessarsi di fotografia sul brigantaggio questo libro di Paolo Morello è un interessante viatico. Come utile è anche per un approfondimento.
Catalogo della mostra Briganti. Fotografia e malavita nella Sicilia dell’Ottocento, che ebbe luogo a Palermo presso il Museo Etnografico Siciliano Giuseppe Pitrè dal 15 aprile al 31 maggio 1999, può essere diviso in tre parti, tutte importanti. La prima, l’introduzione, affronta ampiamente l’intersecazione tra storia della fotografia e storia del brigantaggio nel primo decennio postunitario, dal 1860 al 1870.
Entrato Vittorio Emanuele a Napoli il 7 novembre 1860, i piemontesi si trovarono ad affrontare una situazione confusa di reazione e vicinanza da parte della popolazione ai cacciati Borbone. Dopo lo scioglimento dell’esercito regolare borbonico, migliaia di ex-soldati, ben addestrati alla vita militare, cominciarono a vagare per le campagne, andando poi ad ingrossare le file dei briganti.
Molti fotografi cominciarono ad interessarsi dei briganti. Inizialmente erano semplicemente ritratti privati, le famose cartes de visite, in formato ridotto, circa 6 x 9 centimetri. Su un’unica lastra di negativo, grazie ad un’apposita macchina a quattro obiettivi, si riuscivano a produrre fino ad otto fotografie, anche in pose diverse. Il costo era estremamente basso e quindi a tutti accessibile.
In quegli anni la stessa fotografia poteva assolvere scopi diversi: di ritratto privato, di fotografia segnaletica, di oggetto di collezionismo. Solo intorno al 1870, la fotografia entrò stabilmente tra gli strumenti della polizia.
Fra le cartes de visite sono oggi conservate, nell’Archivio del Museo del Risorgimento di Roma, due scatti che effigiano una bella brigantessa in costume (talvolta identificata con Michelina Di Cesare, ma senza fondamento). Armata di schioppo, pistola e pugnale, la brigantessa si appoggia ad una roccia di cartapesta. Queste fotografie, quasi certamente, non raffigurano una brigantessa reale, ma una modella, messa in posa dal fotografo nel suo atelier.
Altre volte venivano simulati, mettendo in posa briganti veri arrestati, conflitti a fuoco nei cortili delle galere. Un fotografo, ad assedio finito nel febbraio 1861, ricostruì i resti della fortezza di Gaeta, disseminandola di falsi cadaveri.
Ma la tragica novità di quegli anni fu che vennero fotografati i veri cadaveri dei briganti ammazzati, talvolta denudati e decapitati. Quelle fotografie ordinate dai piemontesi, venivano diffuse alla stampa nazionale ed internazionale per fini propagandistici; si volevano esaltare i successi delle forze dell’ordine sui briganti descritti e rappresentati come bestie efferate. Non so che effetto facessero allora quelle foto sul pubblico, a me oggi suscitano profonda indignazione per l’inumanità dei piemontesi vincitori. Così si faceva l’unità d’Italia.
Tutte quelle fotografie, dalle pseudobrigantesse in posa ai morti ammazzati, venivano vendute a Napoli nella bottega di Alberto Detken, libraio-editore in Largo Palazzo, o nella bottega d’arte di Migliorato in Via Toledo , o ancora nel vicino atelier di Alphonse Bernoud.
Paolo Morello nel suo libro elenca molti fotografi, anche stranieri, allora operanti nel sud d’Italia e che hanno fotografato briganti: Mersanne, Giuseppe Incorpora, E. Appert, M. Brocato di Cefalù, Raffaele Del Pozzo, Alphonse Bernoud, Emanuele Russi, Ferdinando Caparelli, Giuseppe Chiariotti, Eugenio Sevaistre, Gioachino Altobelli, Raffaele Servillo, Enrico Seffer.
La seconda parte del libro-catalogo di Morello tratta più specificamente della raccolta di fotografie sul brigantaggio presente nel Museo Pitrè di Palermo. Sono 129 fotografie, delle quali dieci riprendono cadaveri, le altre sono ritratti; oltre ottanta in formato carte de visite, databili, per la maggior parte, agli anni ottanta dell’Ottocento. Solo di quattro gruppi di foto si conosce l’autore.
I briganti di quest’ultima collezione hanno poco in comune con quelli del periodo postunitario. Scrive Morello: «In Sicilia, negli anni di cui stiamo trattando, il brigantaggio non aveva mai avuto quel valore politico, che lo aveva animato nel periodo susseguente alla fuga dei Borbone a Roma (febbraio 1861). Era piuttosto una ordinaria attività delinquenziale, fondata sull’abigeato, sul ricatto, sul sequestro, sulle grassazioni».
Nella terza parte del catalogo troviamo un ricchissimo apparato iconografico: 10 riproduzioni (quasi tutte di incisoni di primo ottocento), 83 foto di briganti e brigantesse, vivi e morti.
Abbiamo, tra le altre, foto dei briganti Schiavone, La Bella, Schirò, Pilone, Borjes, Tristany, Spinelli, Caruso, Tamburini, Ninco-Nanco, Tranchella, Palmieri, Barile, Tinna, Voloninno, della brigantessa Marianna Pettulli, del trio Filomena Pennacchio, Giuseppa Vitale e Giovanna Tito.
Rocco Biondi
Paolo Morello, Briganti. Fotografia e malavita nella Sicilia dell’Ottocento, Sellerio editore Palermo, 1999, pp. 162, € 21,00
Catalogo della mostra Briganti. Fotografia e malavita nella Sicilia dell’Ottocento, che ebbe luogo a Palermo presso il Museo Etnografico Siciliano Giuseppe Pitrè dal 15 aprile al 31 maggio 1999, può essere diviso in tre parti, tutte importanti. La prima, l’introduzione, affronta ampiamente l’intersecazione tra storia della fotografia e storia del brigantaggio nel primo decennio postunitario, dal 1860 al 1870.
Entrato Vittorio Emanuele a Napoli il 7 novembre 1860, i piemontesi si trovarono ad affrontare una situazione confusa di reazione e vicinanza da parte della popolazione ai cacciati Borbone. Dopo lo scioglimento dell’esercito regolare borbonico, migliaia di ex-soldati, ben addestrati alla vita militare, cominciarono a vagare per le campagne, andando poi ad ingrossare le file dei briganti.
Molti fotografi cominciarono ad interessarsi dei briganti. Inizialmente erano semplicemente ritratti privati, le famose cartes de visite, in formato ridotto, circa 6 x 9 centimetri. Su un’unica lastra di negativo, grazie ad un’apposita macchina a quattro obiettivi, si riuscivano a produrre fino ad otto fotografie, anche in pose diverse. Il costo era estremamente basso e quindi a tutti accessibile.
In quegli anni la stessa fotografia poteva assolvere scopi diversi: di ritratto privato, di fotografia segnaletica, di oggetto di collezionismo. Solo intorno al 1870, la fotografia entrò stabilmente tra gli strumenti della polizia.
Fra le cartes de visite sono oggi conservate, nell’Archivio del Museo del Risorgimento di Roma, due scatti che effigiano una bella brigantessa in costume (talvolta identificata con Michelina Di Cesare, ma senza fondamento). Armata di schioppo, pistola e pugnale, la brigantessa si appoggia ad una roccia di cartapesta. Queste fotografie, quasi certamente, non raffigurano una brigantessa reale, ma una modella, messa in posa dal fotografo nel suo atelier.
Altre volte venivano simulati, mettendo in posa briganti veri arrestati, conflitti a fuoco nei cortili delle galere. Un fotografo, ad assedio finito nel febbraio 1861, ricostruì i resti della fortezza di Gaeta, disseminandola di falsi cadaveri.
Ma la tragica novità di quegli anni fu che vennero fotografati i veri cadaveri dei briganti ammazzati, talvolta denudati e decapitati. Quelle fotografie ordinate dai piemontesi, venivano diffuse alla stampa nazionale ed internazionale per fini propagandistici; si volevano esaltare i successi delle forze dell’ordine sui briganti descritti e rappresentati come bestie efferate. Non so che effetto facessero allora quelle foto sul pubblico, a me oggi suscitano profonda indignazione per l’inumanità dei piemontesi vincitori. Così si faceva l’unità d’Italia.
Tutte quelle fotografie, dalle pseudobrigantesse in posa ai morti ammazzati, venivano vendute a Napoli nella bottega di Alberto Detken, libraio-editore in Largo Palazzo, o nella bottega d’arte di Migliorato in Via Toledo , o ancora nel vicino atelier di Alphonse Bernoud.
Paolo Morello nel suo libro elenca molti fotografi, anche stranieri, allora operanti nel sud d’Italia e che hanno fotografato briganti: Mersanne, Giuseppe Incorpora, E. Appert, M. Brocato di Cefalù, Raffaele Del Pozzo, Alphonse Bernoud, Emanuele Russi, Ferdinando Caparelli, Giuseppe Chiariotti, Eugenio Sevaistre, Gioachino Altobelli, Raffaele Servillo, Enrico Seffer.
La seconda parte del libro-catalogo di Morello tratta più specificamente della raccolta di fotografie sul brigantaggio presente nel Museo Pitrè di Palermo. Sono 129 fotografie, delle quali dieci riprendono cadaveri, le altre sono ritratti; oltre ottanta in formato carte de visite, databili, per la maggior parte, agli anni ottanta dell’Ottocento. Solo di quattro gruppi di foto si conosce l’autore.
I briganti di quest’ultima collezione hanno poco in comune con quelli del periodo postunitario. Scrive Morello: «In Sicilia, negli anni di cui stiamo trattando, il brigantaggio non aveva mai avuto quel valore politico, che lo aveva animato nel periodo susseguente alla fuga dei Borbone a Roma (febbraio 1861). Era piuttosto una ordinaria attività delinquenziale, fondata sull’abigeato, sul ricatto, sul sequestro, sulle grassazioni».
Nella terza parte del catalogo troviamo un ricchissimo apparato iconografico: 10 riproduzioni (quasi tutte di incisoni di primo ottocento), 83 foto di briganti e brigantesse, vivi e morti.
Abbiamo, tra le altre, foto dei briganti Schiavone, La Bella, Schirò, Pilone, Borjes, Tristany, Spinelli, Caruso, Tamburini, Ninco-Nanco, Tranchella, Palmieri, Barile, Tinna, Voloninno, della brigantessa Marianna Pettulli, del trio Filomena Pennacchio, Giuseppa Vitale e Giovanna Tito.
Rocco Biondi
Paolo Morello, Briganti. Fotografia e malavita nella Sicilia dell’Ottocento, Sellerio editore Palermo, 1999, pp. 162, € 21,00