Il sequestro di Lichtensteiger ad opera della banda di Gaetano Manzo si protrasse dal 13 ottobre 1865 al 10 febbraio 1866.
Teatro dell’operazione furono i Monti Picentini, uno dei massicci più estesi ed imponenti dell’Appennino meridionale, che si estendono in Campania a sud di Avellino tra l’Irpinia, il Salernitano e la Basilicata. Da quei monti nascono i fiumi Sele, Ofanto, Calore, Sabato, Irno, Picentino e Tusciano.
I Picentini, per le caratteristiche ambientali, sono sempre stati un’area di antiche e notevoli tradizioni brigantesche. Gli abitanti di quelle zone erano pastori, boscaioli, cacciatori, carbonai, che conoscevano le più riposte pieghe delle montagne e dei boschi. Quel terreno non si prestava a grosse bande, ma a piccoli e medi raggruppamenti, che raramente superavano i 20 componenti. Capi di quelle bande furono Francesco Cianci di Montella, Antonio Maratea Ciardullo di Campagna, Andrea Ferrigno di Acerno, Luigi Cerino di Montecorvino, Antonio Di Nardo di Montella, Gregorio Ricci di Battipaglia.
Ma il capo brigante che emerse su tutti fu Gaetano Manzo, caciaio di Acerno. La sua prima grossa impresa la compì il 15 maggio 1865 col clamoroso sequestro, presso Battipaglia, dei turisti inglesi Moens e Murray-Aynsley.
Successivo sequestro ad opera di Manzo fu appunto quello di Federico Wenner figlio dell’industriale Alberto Wenner, di Isacco Friedli istitutore della famiglia Wenner, di Giovan Giacomo Lichtensteiger disegnatore della ditta Wenner, di Rodolfo Gubler commesso della stessa ditta. Erano tutti di origine svizzera.
La società Wenner & C., fondata a Salerno nel 1835, era uno dei più moderni opifici tessili europei.
Io ho letto il libro di Lichtensteiger, quasi a dispetto di Sebastiano Martelli che nella introduzione propone una lettura più complessa, solo in chiave storiografica e documentaria, in quanto esso «fornisce una messe di dati, di informazioni sui movimenti delle bande, sugli sganciamenti dalle forze dell’ordine, sulle località dello scenario brigantesco, sulla rete di contatti, sui rapporti con i centri abitati, sulla struttura ed organizzazione della banda, sulla vita nei boschi, sulla tecnica delle trattative per il riscatto, sui codici di comportamento».
L’agguato lo tesero in nove. «Non temete, non vi sarà torto un capello; non si tratta di sangue ma di soldi», dissero. Il corteo si mise in marcia; era una specie di fila indiana; davanti alcuni briganti, al centro un brigante dietro ogni prigioniero, in coda il resto della banda.
Ci si accampava all’aperto, incuranti della pioggia che in quella stagione cadeva spesso e copiosa. «La pioggia scorreva giù a mo’ di diluvio universale, ed un forte vento ce la sferzava contro. La nostra sventura divenne per noi due volte più dura, poiché capitava proprio nella cattiva stagione delle piogge», scrive Lichtensteiger. Al calar della notte veniva acceso un grande fuoco per riscaldarsi ed asciugarsi; «nebbia e pioggia proteggevano dal rischio di essere scoperti».
Il vitto era buono. Dai briganti le provviste venivano pagate ai contadini «anticipatamente, al doppio del loro valore». Scrive ancora Lichtensteiger: «Eravamo tutti diventati palesemente più grassocci; la vita da marmotte, con pane e formaggio a sufficienza, spesso maccaroni e di quando in quando perfino carne, ci aveva fatto bene al fisico».
Per tutto il periodo del sequestro si fu quasi sempre in cammino, «su e giù per montagne, valli e campi, per prati e burroni, sempre il più possibile lontano da luoghi abitati». I fiumi i sequestrati li attraversavano sulle spalle dei rapitori.
Ma questo è ancora brigantaggio socio-politico? Nelle origini certamente sì. Anche per Manzo la causa scatenante dell’approdo brigantesco fu la renitenza alla leva. Resiste ancora l’adesione filoborbonica, l’avversione alla nuova monarchia ed al nuovo Stato unitario. Conta ancora molto il ruolo della Chiesa nella scelta del brigantaggio.
E anche dei soldi pagati per il riscatto pochi ne rimanevano ai briganti. Il brigante Manzo, dopo che è stata pagata l’ultima rimessa del riscatto, dice a Fritz Wenner: «Non maledite il denaro che il vostro signor papà ha dovuto pagare per voi! Ne è rimasto abbastanza poco nelle nostre mani».
Nel diario scritto da Isacco Friedli , altro sequestrato insieme a Wenner, leggiamo: «Così si comincia a capire che via prendono i soldi, come possa essere possibile che i briganti trovino tanti complici e dove si trovi effettivamente il nocciolo del male in queste province meridionali, se nei villaggi oppure nelle foreste». Molta gente che vive tranquillamente nel paese si arricchisce alle spalle dei briganti che si nascondono nei boschi.
Ugo Di Pace, che ha corredato il testo di Lichtensteiger con un apparato di note e con un appendice di documenti rari, nella seconda parte del libro ha scritto un interessantissimo saggio su Raffaele Del Pozzo, fotografo dei Briganti. Ma di questo scriverò in un prossimo post.
Rocco Biondi
Johann Jakob Lichtensteiger, Quattro mesi fra i briganti (1865/66), a cura di Ugo Di Pace, traduzione di Brigida Corrado e Antonella Chiellini, con un saggio su Raffaele Del Pozzo, fotografo dei Briganti, Avagliano Editore, Cava dei Tirreni 1984, pp. 186
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