11 luglio 2008

Stato società e briganti nel Risorgimento italiano, di Ottavio Rossani

Grande merito del libro di Rossani è l’essere riuscito a fare il punto degli studi più recenti sul fenomeno del brigantaggio meridionale postunitario, che dell’epoca risorgimentale mettono in evidenza anche le ragioni dei perdenti.
Il termine brigantaggio viene ormai assumendo una connotazione positiva. Continuano a squarciarsi sempre più i veli stesi dagli storici organici al potere ed al regime dei Savoia, tendenti a coprire ed a falsare i tragici avvenimenti degli anni immediatamente successivi all’invasione del Sud da parte dei piemontesi.
Erano possibili molti modi per fare l’Italia. Cavour e i suoi successori scelsero la strada della sospensione delle garanzie costituzionali per larga parte del territorio italiano e della repressione militare del dissenso.
L’atteggiamento repressivo contribuì ad inasprire i rapporti, a provocare la reazione di chi si sentiva ingiustamente perseguitato, andando ad ingrossare le bande dei cosiddetti briganti.
E’ ben lontana da noi l’ipotesi - scrive il Rossani - di rimettere in discussione l’unità del Paese e nemmeno intendiamo alimentare patetiche nostalgie borboniche o asburgiche o altro, come fanno alcuni polemisti. Si tratta invece di prendere atto di ciò che avvenne veramente e di rispettare coloro che si opposero non al processo di unificazione, ma ai soprusi e agli eccessi di militari e funzionari che ignoravano tutto del Sud ma si calavano nel Sud con il compito di “civilizzatori”, portando nei fatti arroganza, ignoranza, prepotenza e corruzione.
Il brigantaggio fu movimento di massa non organizzato che si oppose all’occupazione piemontese, fu lotta armata del popolo napoletano contro il Savoia invasore per il ritorno di Francesco II. Il brigantaggio fu un fatto politico e sociale, e non una semplice questione criminale come si volle far credere.
Quando le ultime roccaforti in cui si erano asserragliati i soldati borbonici, Gaeta, Messina e Civitella del Tronto, si arresero dopo lunga resistenza, le bande dei briganti proliferarono e la resistenza armata diventò più forte. Ufficiali legittimisti, provenienti da fuori Italia, tentarono un’organizzazione unitaria delle bande, con l’obiettivo di far sollevare tutto il Sud. La primavera 1861 fu il momento di maggiore incandescenza della rivolta.
Ma il “Comitato borbonico” che agiva da Roma era incapace di pianificare le azioni necessarie per sostenere quella guerriglia e farla diventare insurrezione popolare organizzata.
La repressione ad opera dell’esercito piemontese fu spietata. Su “La Civiltà Cattolica” dei Gesuiti furono pubblicati una serie di interventi in cui vennero enumerate le azioni di aggressione, inciviltà, rappresaglia, immotivata ferocia, perpetrate dall’esercito piemontese.
L’arresto e la fucilazione di Borjés e di Tristany posero praticamente fine alla tensione politica, anche se le bande di briganti continuarono ancora a lungo a fare imboscate e ad aggredire le truppe dei militari e delle guardie nazionali.
Quasi tutti i capibanda furono arrestati o fucilati.
Lo scioglimento del Governo in esilio, ad opera di Francesco II nel 1867, decretò la definitiva fine del Regno borbonico. Ma per il Sud la storia e la ribellione continuarono con la grande emorragia migratoria.
La questione del brigantaggio continua a rimanere uno dei nodi irrisolti della storia italiana. La repressione del brigantaggio fu la continuazione logica della campagna di occupazione militare e fu affidata all’esercito piemontese, con l’impiego massiccio di bersaglieri, carabinieri ed altri corpi militari; all’esercito si affiancarono anche i componenti di formazioni locali chiamate “Guardia nazionale”.
Il brigantaggio mise in crisi il neonato Stato unitario e per poco non riuscì a spezzarlo.
La carneficina degli “italiani” del Sud, ad opera dei piemontesi, fu immane. Risulta che - scrive Rossani - tra il 1861 e il 1872 ci furono 154.850 caduti in combattimento, 111.520 fucilati o morti in carcere, con un totale di perdite quindi tra briganti e complici di 266.370. Le perdite piemontesi furono invece di solo 23.013 unità.
Altri italiani del Sud furono internati nei “lager dei Savoia”. In totale circa 58.000 uomini, fatti prigionieri, furono deportati al Nord. Il più famigerato di questi campi di concentramento fu Fenestrelle, una vecchia fortezza nella Val Chisone a 2.893 metri di altitudine, in provincia di Torino. Da quella fortezza nessuno riuscì mai ad evadere. I morti venivano gettati, per motivi igienici, in un’enorme vasca di calce viva.
Libro assai utile sia per chi inizia ad interessarsi di brigantaggio che per approfondimenti.

Ottavio Rossani, Stato società e briganti nel Risorgimento italiano, Pianetalibro Editori, Possidente (PZ), 2003, pp. 174

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