Il
libro porta come autore Francesco Mastriani, ma in realtà si tratta
di Filippo, figlio di Francesco. Approfittando infatti che ambedue
iniziano il nome con F., molti editori e stampatori napoletani
usarono il nome Francesco, ormai famoso, per attribuirne libri e
romanzi. Un’attenta lettura del romanzo, dice Concetta Sabbatino,
fa attribuire il romanzo a Filippo.
Trattandosi
di un romanzo non sempre i fatti narrati corrispondono a quelli della
vita reale.
Il
primo atto della vita brigantesca di Cipriano, secondo il romanzo, fu
l’uccisione di una fanciulla, di nome Elisabetta, che aveva tradito
il suo amore. Poi uccise anche Lorenzo con cui lo tradiva.
A
questi due primi delitti tenne dietro una sequela di misfatti:
grassazioni, rapine, estorsioni, mutilazioni, omicidi; quasi tutti
dell’anno 1861. L’autore Mastriani sembra discolpare da tutti
questi misfatti Cipriano, «non comparendo mai né come esecutore
materiale, né come mandatario, né come istigatore», addossandone
la colpa ad altri briganti, specialmente a suo fratello Giona «belva
sotto l’apparenza di uomo»; ma in realtà riconoscendo in lui «una
strana miscela di ingredienti contraddittori, cioè coraggio e viltà,
ardire e prudenza, scaltrezza e pusillanimità, autorità e
soggezione». L’avvocato Cecaro, nella sua lunga difesa, dimostrerà
come Cipriano si ponesse dietro le quinte.
Seguono
poi nel romanzo le narrazioni degli omicidi dei carabinieri Cuminelli
e Brocchieri, la libertà che Cipriano diede ai soldati che avevano
combattuto in quaranta contro trecento briganti, come Cipriano sfuggì
al carnefice fingendosi morto, l’uccisione del giovane Luigi Savoia
tenente della Gurdia Nazionale, le fiamme che avvolsero un banchiere
dopo che Cipriano le salvò la figlia, l’atroce assassinio del De
Cesare che aveva fatto un torto a Giona nel carcere, l’uccisione
del vecchio prete Viscusi.
Cipriano,
insieme ad altri quattro briganti, fu arrestato dal questore di
Genova a bordo del piroscafo francese l’Aunis. Ne nacque un caso
diplomatico con i francesi, che in qualche modo proteggevano i
briganti. Nel contempo Cipriano e Giona, evasi dalle prigioni erano
comparsi, con una numerosissima banda, sulle montagne del Taburno.
Ma
Cipriano e i suoi furono vittime di una donna. Questa, diciottenne,
su consiglio del padre che volle intascare il vistoso premio, si
offrì al capo-brigante e divenne la sua amante. Fino a quando
Cipriano, in occasione del suo onomastico, volle offrire alla sua
comitiva un sontuosa cena. La donna disse che avrebbe messo a
disposizione una botte del vino migliore del padre, vinaio; ma dopo
avervi versato dentro una buona quantità di oppio, che fece
addormentare tutti, Cipriano e i suoi compagni, dopo aver digerito il
narcotico, si trovarono legati nel fondo di una prigione.
Cipriano
e il fratello Giona furono condannati, dalla Corte di Assise di Santa
Maria Capua Vetere, alla pena di morte, Domenico Papa ai lavori
forzati a vita, Giovanni d’Avanzo a venti anni di lavori forzati.
Cipriano
La Gala, secondo il romanzo, morì da eroe, guardando in faccia la
morte; mentre in realtà morì in carcere, essendo stata mutata la
sua pena ai lavori forzati a vita.
Rocco
Biondi
Francesco
Mastriani, Amori e delitti dei briganti Cipriano e Giona La
Gala. Romanzo storico del brigantaggio, Imagaenaria
Edizioni, Ischia 2004, pp. 270
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