28 ottobre 2016

I lager dei Savoia, di Fulvio Izzo



Nella prefazione al libro di Fulvio Izzo “I lager dei Savoia”, Francesco Mario Agnoli scrive che i briganti non erano quello che negativamente i piemontesi dicevano ma soldati spesso provenienti dall’esercito regolare borbonico, che continuavano a sentirsi cittadini di uno Stato carico di una storia secolare. E se la fortuna delle armi e della politica avesse girato a loro favore, oggi avrebbero sacrari e strade intitolate al loro nome; anzi dovrebbero averle se ci trovassimo in un’Italia più civile, unita da liberi vincoli federali o confederali e rispettosa di chi la pensa in modo diverso. Come avvenne in America, dopo la guerra di Secessione, dove i vincitori compresero che il nuovo Stato per divenire grande e forte avrebbe dovuto accettare le ragioni dei vinti.
     Ma la scoperta più amara, che il lettore del libro fa, è che nel nostro civile paese sono esistiti, nell’immediato periodo postunitario, “lager, gulag, campi di rieducazione” a Ponza, al Giglio, alla Gorgona e in tutte le altre isole e scogli di domicilio coatto, nella cittadella di Alessandria, nei “depositi” di Genova, di Rimini, di Casaralta (Bologna), nel campo di concentramento e rieducazione di San Maurizio Canavese nei pressi di Torino, ed infine sempre in provincia di Torino nella fortezza di Fenestrelle dove venivano mandati i più riottosi.
     E quanti furono i meridionali deportati in questi campi di concentramento? Certamente non poche decine, ma molte migliaia. Francesco Crispi nella tornata della Camera dei Deputati del 4 gennaio 1864, in occasione della discussione sul nuovo disegno di legge di modifica alla legge Pica, riferisce dell’attestato ufficiale del Prefetto di Girgenti che dichiara che in quella provincia in un solo mese il numero dei detenuti nelle prigioni furono trentadue mila. Basta moltiplicare quel numero per tutte le carceri d’Italia per sapere quanti erano i detenuti in quegli anni.
     La maggior parte di quei detenuti erano ufficiali, soldati prigionieri e sbandati dell’esercito borbonico. In una prima fase i detenuti furono sistemati nelle carceri napoletane e poi in una successiva fase furono deportati al nord, lontano dai focolai di resistenza.
     I prigionieri venivano inviati per la maggior parte via mare a Genova per poi essere smistati nelle varie località di destinazione: Fenestrelle, San Maurizio Canavese, Alessandria, S. Benigno, Milano, Bergamo e così via. A Genova giungevano “bastimenti carichi di quegli infelici, laceri, affamati, piangenti”. Talvolta per la disperazione quei soldati si davano la morte, annegandosi in mare volontariamente. Uomini nati e cresciuti in un clima caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, venivano gettati a spasimar di fame e di stenti fra le ghiacciaie.
     Negli ospedali militari di Genova la mortalità nei primi mesi del 1861 fu tripla rispetto all’ultimo semestre del 1860; in un sol giorno si contarono fino a quattordici decessi, quasi tutti in seguito ai mali trattamenti subiti.
     Il calvario di questi maltrattamenti viene raccontato in alcune testimonianze dell’epoca. I prigionieri durante i trasferimenti venivano fatti dormire sul nudo lastrico delle chiese, o addirittura all’aperto sulla terra, “il che non si fa coi cavalli, cui almeno si getta sotto una bracciata di strame per coricarsi”. Stanno nel carcere con poco vitto, senza vesti, senza conforto; patiscono la fame e la sete. Talvolta vendono il pane per comprarsi un po’ di sapone per lavarsi l’unica camicia che hanno.
     Vengono rinchiusi i soldati napoletani capitolati a Capua, a Gaeta, a Messina. La stessa sorte toccherà ai soldati pontifici dopo la presa di Roma nel 1870. E per tutti insulti, sputi, bastonate, sevizie, durante le marce di trasferimento. E poi la lunga detenzione in condizioni volutamente inumane. Vige ancora il sistema delle bastonature, dello spionaggio (delazione), delle celle di rigore (senza luce, senza aria, senza spazio), della camicia di forza, della palla (due palle di circa dieci chili appese ai polsi per non meno di dodici ore), del cassone (una specie di bara nella quale il condannato è legato immobile), del puntale (collare di ferro chiuso alla gola con apposito fermaglio), dei ferri corti (l’individuo è legato mani e piedi per tenerlo raggomitolato sulla nuda terra).
     A circa 140 anni dagli avvenimenti, scrive Izzo nell’introduzione, non è ancora possibile ricostruire in modo preciso l’odissea dei soldati borbonici prigionieri di guerra nella campagna del 1860-61, per il semplice motivo che il problema è stato totalmente e volutamente rimosso non solo dalla memoria, ma anche dagli archivi. In questi ultimi si trova molto materiale sui briganti, ma molto poco sui soldati napoletani prigionieri.
     Nel libro Izzo offre un’articolata antologia, frammento per frammento, delle piccole tracce su quei soldati prigionieri sulle quali è riuscito a mettere le mani, al fine di sottrarle all’oblio e al silenzio destinato ai vinti.
     L’esercito napoletano, che nel maggio 1860 contava circa 97.000 uomini, nel dicembre dello stesso anno si era quasi del tutto disciolto. Rimanevano però più o meno consistenti nuclei di soldati, per l’ultima difesa, a Gaeta, a Messina, a Civitella del Tronto. Già in quello stesso periodo molti soldati napoletani venivano trasferiti al nord come prigionieri di guerra; nel settembre del 1861, come scrive il 12.9.1861 il giornale liberale Il Nomade, erano diventati 32.000.
     A Fenestrelle i prigionieri per il 22 agosto 1861 prepararono un piano di sollevazione per impadronirsi della fortezza. Il disegno venne però scoperto; i rivoltosi furono disarmati; oltre alle armi fu sequestrata anche una bandiera borbonica. La notizia ebbe un impatto enorme. Anche al campo di San Maurizio si verificarono episodi di rivolta.
     Dai vari campi di concentramento si verificarono continui e riusciti tentativi di fuga. I fuggitivi andavano ad infoltire le bande dei briganti. Queste bande ebbero come capi non pochi ex soldati borbonici.
     Anche i magistrati meridionali, nel timore che non si adeguino al nuovo corso piemontese, subiscono moltissimi procedimenti epurativi. Il personale dell’amministrazione della giustizia napoletana viene rinnovato per i nove decimi. I giudici si trovano alla mercé delle maggioranze dei consigli comunali, nel frattempo rinnovati. L’ordine giudiziario è completamente asservito al potere politico.
     Si tenta anche di avere la concessione di un’isola deserta per relegarvi, sbarazzandosene definitivamente, la massa ingombrante dei prigionieri. Per fortuna questo progetto non andò in porto, per l’opposizione dei vari governi stranieri interessati.
     Il problema venne risolto con l’emigrazione. Alle popolazioni meridionali sconfitte non restò altro che battere la via dell’oceano. E le condizioni di vita degli emigranti non furono migliori di quelle di un qualsiasi carcere.
Rocco Biondi

Fulvio Izzo, I lager dei Savoia, Controcorrente, Napoli 1999 (seconda edizione 2005), pp. 240

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