2 maggio 2014

Banditi e briganti, di Enzo Ciconte



Perché ancora oggi si parla dei briganti in convegni, mostre, musei mentre sono caduti nell’oblio i nomi di coloro che li hanno combattuti e vinti? Rispondendo a questa domanda, secondo Enzo Ciconte, si possono capire tanti problemi e nodi ancora irrisolti a distanza di 150 anni dall’Unità d’Italia, che andava sì fatta ma non nel “modo come quel tipo di unità s’è realizzata”. Gli errori e gli orrori del primo decennio unitario si stanno pagando ancora adesso e a caro prezzo. Ma per sapere e capire cosa è accaduto in quei dieci anni è necessario andare indietro di qualche secolo.
     Le pagine del libro affrontano la storia del banditismo cinque-settecentesco e del brigantaggio ottocentesco, sostenendo che i due fenomeni (banditismo e brigantaggio) pur essendo diversi tra di loro hanno però sorprendenti similitudini. E siccome si è già scritto tantissimo sul decennio francese (1806-1815) e sul primo decennio italiano (1861-1870), questi vengono sacrificati per dare spazio ad altri aspetti meritevoli di attenzione.
     I banditi cinque-settecenteschi sono gli antenati dei briganti.
     Il termine bandito deriva dalla parola bando, che era un annunzio pubblico in cui, oltre al reato commesso, venivano indicati il nome o i nomi di coloro i quali venivano scacciati dalla comunità per un tempo determinato o per sempre. Il bandito non ha una precisa fisionomia e il termine viene usato nei confronti di persone diversissime tra loro. Tra i banditi oltre ad assassini, ladri o rapinatori, ci sono nobili, baroni e signorotti in lotta con il potere regio o con quello locale.
     Il termine brigante è molto antico, si trova già in epoca medioevale, ma è a tutti gli effetti una parole ottocentesca, secondo Ciconte, che sostiene sarebbe bene usare questo termine da quando prendono a usarlo i francesi e da quando farà il suo ingresso nella legislazione e nel codice penale, l’inizio ottocento appunto, lasciando il termine bandito per i secoli precedenti.
     Un motivo che unifica i banditismi di tutte le epoche è la permanente difficoltà a ottenere giustizia per vie legali. La giustizia appare «relativa» e per di più «corruttibile».
     Il banditismo ha imperversato in tutte le epoche in tutti gli Stati preunitari, dal Veneto alla Sicilia, specialmente quando maggiore era il fermento politico e sociale. Il Consiglio dei Dieci veneziano calcolò che tra Cinquecento e Seicento vi erano 18.000 banditi a cavallo, una cifra enorme.
     Banditi famosi sono stati il calabrese Marco Berardi (metà 1500), detto Re Marcone; l’abruzzese Marco Sciarra (metà 1500), Re della Campagna; Giulio Pezzolla (1600), che operò tra il Regno di Napoli e lo Stato pontificio; il pugliese Pietro Mancino (1600).
     Contro i banditi i governanti mettono in atto un’atrocità spaventosa. Quando il bandito viene ucciso in battaglia oppure giustiziato immediatamente dopo la cattura, c’è l’abitudine di infierire sui corpi, di squartare i cadaveri, di inviare le parti nei luoghi dove ha agito. La testa di solito veniva infilzata su di un’alta picca perché fosse da monito a tutti.
     Spesso viene messa in atto una politica premiale, perché da sola la repressione più dura non funziona. I parenti sono indotti a tradire o addirittura a uccidere i propri congiunti pur di avere il premio in denaro o di salvare la propria pelle e le proprietà. Si moltiplicano le taglie e la delega a chiunque di uccidere. Chi uccide un bandito libera se stesso o un altro bandito. Non è richiesta la consegna del corpo di un determinato bandito, ma quello di un bandito qualunque. La testa di un “malfattore” diventa un macabro titolo di credito. Mentre con una mano si reprime, con l’altra si premia la dissociazione e il tradimento.
     Ma ai banditi va la simpatia popolare; nessuno parla contro di loro, sono circondati dappertutto da una grande complicità, una omertà diffusa crea una barriera di silenzio attorno a loro. E si crea intorno a loro il mito. Mentre i generali si danno da fare per sterminarli, i briganti si vendicano rinascendo dopo la loro morte e trasformandosi in un esempio da seguire.
     I banditi prima, i briganti poi, sono stati accompagnati dal fiorire di leggende, ballate, canzoni, racconti, fiabe. Si parla di loro in saggi storici, in documentari televisivi, nei film, persino nei fumetti oltre che nei racconti orali che sono tanti e si continuano a ripetere.
     Sul finire del Settecento, scrive Ciconte, nascono i briganti. Sono così chiamati coloro che non accettano soprusi e ingiustizie, si ribellano alle angherie dei signorotti locali e si danno alla macchia pur di non continuare a subire.
     Ciconte parla del brigantaggio al tempo dei francesi, al tempo del Papa Re, al tempo degli ultimi Borbone.
     Quando nel 1799 il cardinale Fabrizio Ruffo forma la sua armata della “Santa Fede” per riportare il Re Borbone a Napoli, da dove i francesi erano riusciti a cacciarlo proclamando la Repubblica napoletana, accanto a lui erano schierate molte bande brigantesche con i loro famosi capi: Giuseppe Pronio, Giuseppe Costantini detto Sciabolone, Michele Pezza detto Fra Diavolo, Gaetano Mammone.
     Durante il decennio francese furono conferiti i pieni poteri al generale Charles Manhès per combattere il brigantaggio in Abruzzo, nel Cilento, in Calabria. Fu messa in atto una feroce guerra di sterminio contro i briganti. Ci fu una grande sproporzione tra i mezzi adoperati e l’entità e qualità del fenomeno.
     Nello Stato pontificio i due principali briganti furono Alessandro Massaroni (1790/1821)
e Antonio Gasbarrone (1793/1880). Papi del periodo furono Pio VII (1742/1823) e Leone XII (1760/1829). Anche nello Stato pontificio i cadaveri dei briganti venivano squartati. Contro questo scempio si schierò il santo don Gaspare del Bufalo.
     Al tempo dei Borbone fu nominato Commissario regio Francesco Del Carretto, che usò un pugno di ferro contro i briganti. I principali capi briganti furono Gaetano Meomartino soprannominato Vardarelli, il già citato don Ciro Annichiarico, Giosafatte Talarico. Ma anche sotto i Borbone i mezzi adoperati per la distruzione del brigantaggio furono inefficaci.
     Quando nel 1860 i piemontesi invasero, occuparono e annessero il Regno delle Due Sicilie, i briganti si moltiplicarono. La rivolta esplode e dilaga, ad alimentarla ci sono motivi sociali e politici; v’è il tentativo dei Borbone di riprendersi il Regno. La repressione ad opera dei piemontesi è spietata. La magistratura militare sostituisce quella ordinaria.
     Oltre alle figure mitiche e leggendarie dei briganti (Chiavone, Centrillo, Crocco, Crapariello, Ninco Nanco, Nenna Nenna, Tinna) vi sono anche le brigantesse (Dinella, Marinelli, Pennacchio, Ciccilla).
     Ciconte infine sostiene che tra brigantaggio e mafia, camorra, ‘ndrangheta non vi sia alcun nesso e rapporto. I briganti sono un fenomeno sociale, i mafiosi delinquenziale.
     Il libro è corredato da un ricchissimo apparato iconografico, ben centoquarantaquattro tra fotografie e illustrazioni.
     Difetto è l’uso di caratteri dal corpo troppo piccolo.
Rocco Biondi

Enzo Ciconte, Banditi e briganti. Rivolta continua dal Cinquecento all’Ottocento, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2011, pp. 192, € 18,00
 

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