Al Piemonte non interessava per niente l'Unità d'Italia. Al Piemonte interessava la conquista delle ricchezze del Sud, delle sue riserve auree, delle sue fabbriche. Per avvalorare questa affermazione Ciano apre il suo libro con delle tabelle statistiche. Nel 1860, anno dell'annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte, le monete di tutti gli Stati italiani ammontavano complessivamente a 668,4 milioni, dei quali ben 443,2 (66,31% del totale) appartenevano al Regno delle Due Sicilie; il Regno di Sardegna/Piemonte ne possedeva solo 27,0 milioni. Dal primo censimento del Regno d'Italia, tenutosi nel 1861, risulta che nelle province napoletane e siciliane la popolazione occupata nell'industria era 1.595.359, nell'agricoltura 3.133.261, nel commercio 272.556, mentre in Piemonte, Liguria e Sardegna (messi insieme) era rispettivamente di 376.955 (industria), 1.501.106 (agricoltura), 119.122 unità (commercio). La città più popolosa era Napoli con 447.065 abitanti, Torino di abitanti ne aveva 204.715, Roma 194.587. Nella Conferenza Internazionale di Parigi del 1856 fu assegnato al Regno delle Due Sicilie il premio di terzo paese del mondo, dopo l'Inghilterra e la Francia, per sviluppo industriale.
Oggi - scrive Ciano nel suo libro - abbiamo due Italie, una del Nord ed una del Sud, una ricca ed una povera. Rispetto al 1860 si sono invertiti i ruoli. Il Nord ha rubato tutto al Sud, che fu invaso militarmente e colonizzato. Ora è tempo di cambiare. Il Sud ha bisogno di liberarsi del colonialismo instaurato dalla borghesia del Nord; ha bisogno di liberarsi del sistema fiscale impostogli dal Piemonte nell'Ottocento; ha bisogno della sua piena autonomia per far sprigionare la fantasia imprenditoriale dei suoi abitanti. Ma il Sud prima di separarsi dovrà chiedere al Nord il conto dei danni subiti, che sono tanti.
Il libro di Ciano, scritto nel 1996, conserva ancora oggi la sua validità e la sua freschezza d'invettiva contro i soprusi compiuti dai Piemontesi per imporre con la forza agli abitanti del Sud una unità non voluta e non sentita.
Il 1861 è un anno che ogni Meridionale deve ricordare, non per la pseudo unità imposta con la forza, ma perché quell'anno i Savoia iniziarono il massacro del Sud. Cannoni contro città indifese; baionette conficcate nelle carni di giovani, preti, contadini; donne violentate e sgozzate; vecchi e bambini trucidati. Case e chiese saccheggiate, monumenti abbattuti, libri bruciati, scuole chiuse.
La fucilazione di massa divenne pratica quotidiana. Dal 1861 al 1871, scrive Ciano, un milione di contadini furono abbattuti; anche se i governi piemontesi su questo massacro non fornivano dati, perché nessuno doveva sapere.
Il brigantaggio fu un grande movimento rivoluzionario e di massa, che lottò contro l'invasione piemontese. I briganti furono partigiani che difendevano la loro patria, la loro terra, il loro Re Borbone e la Chiesa cattolica. Dovevano essere annientati perché si opponevano alle mire colonialistiche dei piemontesi.
Generali ed ufficiali piemontesi furono dei criminali di guerra, che praticarono lo sterminio di massa. I contadini dovevano essere fucilati; imprigionarli non era conveniente, perché, se in galera, lo Stato doveva provvedere al loro sostentamento.
Il Sud sta pagando ancora lacrime e sangue. L'ultimo Re Francesco II, partendo da Gaeta il 14 febbraio 1861, disse: “Il Nord non lascerà ai meridionali neppure gli occhi per piangere”.
Nel 1861 il Sud è stato invaso dalle truppe piemontesi, ed oggi, anche se in modo diverso, continua ancora ad essere invaso. Scrive Ciano: «Una volta i generali savoiardi fucilavano i nostri contadini, oggi, massacrano le nostre menti con le televisioni i cui proprietari sono i liberal massoni di ieri. Non è cambiato niente».
E' giunto il momento - scrive ancora Ciano - di dire basta e di chiamare a raccolta tutti i meridionali sensibili e orgogliosi. E' il momento di compattarci, di rivalutare la nostra storia, di processare l'invasione piemontese del 1860-61, di processare coloro che fucilarono, imprigionarono, deportarono un milione di contadini del Sud etichettandoli briganti.
Più amara della sconfitta è stata la falsa storia raccontata dai prezzolati sabaudi, scrive Lucio Barone nella prefazione del libro. Tutto ciò che apparteneva al Piemonte veniva glorificato e tutto ciò che era borbonico veniva additato al pubblico disprezzo.
Ispiratrice e suggeritrice della politica italiana di quegli anni fu la massoneria inglese, che aveva come obiettivo la costituzione di un nuovo ordine mondiale che non prevedeva più la presenza della Chiesa cattolica. Per l'Italia questo compito fu assegnato al Piemonte e a casa Savoia. Alla massoneria, infatti, appartenevano i cosiddetti padri della patria che diedero vita alla cosiddetta unità d'Italia: Giuseppe Mazzini, Camillo Benso di Cavour, Giuseppe Garibaldi.
“Nord ladro” è il titolo del capitolo che introduce la rassegna delle grandi opere industriali presenti nel Sud prima dell'unificazione al Piemonte.
La Campania nel 1860 era la regione più industrializzata del mondo. Il Reale Opificio meccanico e politecnico di Pietrarsa, con i suoi mille operai specializzati, era il fiore all'occhiello dell'industria partenopea; lì si producevano, con tecnologie avanzate, treni e locomotive. In Castelnuovo operava la Real fonderia con 500 operai, a Torre Annunziata la Real Manufattura delle armi con 500 operai, a Castellamare il Cantiere Navale con 2.000 operai.
A Mongiana in Calabria erano presenti le Ferriere, con 1.500 operai e stabilimenti a Pazzano e Bigonci; quattro altiforni producevano 21.000 quintali di ghisa. Sempre in Calabria, nello Stabilimento metalmeccanico di Cardinale, 200 operai specializzati producevano 2.000 quintali di ferro.
Altri centri siderurgici e meccanici erano sorti a Fuscaldo (Calabria), Picinisco (Terra di Lavoro), Picciano (Abruzzo), Atripalda (Avellino). In Puglia, a Lecce, Foggia, Spinazzola, vi erano officine che producevano macchine agricole.
Ma quasi in ogni paese del Sud nacquero piccole industrie, che costituirono il nerbo dell'economia del Regno delle Due Sicilie. Di notevole importanza erano le industrie per la lavorazione del cuoio e per la produzione di colori, della pasta alimentare, delle maioliche, di vetri, cristalli, cappelli, acidi, cera, corallo, metalli preziosi, stoviglie, saponi, mobili, strumenti musicali.
Nel 1860 - scrive Ciano - i settentrionali scannarono il Sud. Oggi, che non c'è più niente da scannare, paghi chi non ha mai pagato, paghi il Nord che ha sempre rubato. Il Sud ha pagato un prezzo enorme alla causa unitaria: un milione di morti, tra fucilati, incarcerati, impazziti, deportati; 20 milioni di emigranti le cui rimesse sono state dilapidate dal Nord; tutti i risparmi dei Meridionali rapinati dal Nord.
E i pennivendoli di regime continuano a scrivere libri di storia menzogneri, sperando di poter continuare a mettere un velo sull'intelligenza umana, di voler continuare a nascondere le miserie del Nord, gli eccidi perpetrati dagli invasori piemontesi, le prepotenze dei liberal massoni di ieri e di oggi; e soprattutto vogliono farci dimenticare che il Sud era ricco e che il Nord era pezzente.
La parte centrale del libro è dedicata alla descrizione dei massacri operati dai piemontesi nei paesi di Pontelandolfo e Casalduni, due paesi oggi in provincia di Benevento, distanti fra loro circa 5 chilometri. Nel 1861 il primo aveva 5 mila abitanti ed il secondo 3 mila; oggi il numero degli abitanti sia nell'uno che nell'altro paese è dimezzato.
Come in un diario vengono annotati e commentati i tragici avvenimenti che portarono nell'agosto del 1861 alla distruzione dei due paesi.
Per capire con quale spirito i piemontesi erano venuti nel Meridione, basta leggere il contenuto di un bando che un capitano dei bersaglieri piemontesi aveva fatto affiggere per le vie di un paese. Eccolo: «1) Chiunque tratterà o alloggerà briganti sarà fucilato. 2) Chiunque darà segno di tollerare o favorire il più piccolo tentativo di reazione sarà fucilato. 3) Chiunque verrà incontrato per le vie interne o per le campagne con provvigioni alimentari superiori ai propri bisogni, o con munizioni da fuoco per ingiustificato uso, sarà fucilato. 4) Chiunque, avendo notizie dei movimenti delle bande non sarà sollecito di avvisare il sottoscritto, verrà considerato nanutengolo o come tale fucilato». I piemontesi vennero ad imporre la loro inciviltà con i fucili.
E i meridionali si opposero. Preferirono la macchia al nuovo padrone piemontese, preferirono gli stenti, i sacrifici, la morte.
Pontelandolfo, Casalduni, Campolattaro insorsero, abbatterono le insegne savoiarde ed issarono nuovamente le bandiere borboniche. In quei giorni caldi di agosto, il Sud era quasi libero dal gioco piemontese. Le truppe sabaude venivano regolarmente battute dai partigiani-briganti. I popoli meridionali - scrive ancora Ciano - sono sempre stati civili, non hanno mai invaso territori altrui e sono diventati belve quando hanno visto insidiate le loro donne e la loro libertà.
Il generale piemontese Cialdini, da Napoli, diede ordini precisi di stroncare col sangue qualsiasi accenno o fermento di ribellione. Una compagnia, composta da quaranta bersaglieri e quattro carabinieri, fu mandata a ristabilire l'ordine piemontese a Pontelandolfo. Anche per l'inesperienza del loro comandante Bracci, furono tutti fucilati. In un sommario processo furono giudicati colpevoli per aver invaso un regno pacifico senza dichiarazione di guerra e per aver fucilato migliaia di contadini e di giovani renitenti alla leva piemontese. Erano le 22,30 dell'11 agosto 1861.
La rappresaglia piemontese scattò rabbiosa. Un generale piemontese sentenziò: «Per ogni soldato ucciso moriranno cento cafoni». Una prima colonna di piemontesi, composta da 900 bersaglieri, si diresse verso Pontelandolfo, un'altra colonna, composta da 400 uomini, si diresse verso Casalduni. Era l'alba del 14 agosto 1861. E cominciò la mattanza.
Spararono contro vecchi, donne e bambini, sorpresi nel sonno. Diedero fuoco a tutte le case. I paesi divennero un immenso rogo. Uccisioni, stupri, fucilate, grida, urla, saccheggi. Il massacro durò l'intera giornata.
Non si è mai saputo quanti furono i morti di Pontelandolfo, di Casalduni e degli altri paesi vicini. Certamente furono migliaia.
E così i piemontesi fecero l'unità d'Italia.
Rocco Biondi
Antonio Ciano, I Savoia e il Massacro del Sud, Grandmelò, Roma, 2a Ediz. Ottobre 1996, pp. 256
25 luglio 2010
10 luglio 2010
Giuseppe Schiavone - Brigante post unitario
Il brigante post unitario Giuseppe Schiavone, da Franco Molfese definito «ardito e abile, batté ripetutamente truppe e guardie nazionali», nacque a Sant’Agata di Puglia (nell’attuale provincia di Foggia) il 19 dicembre 1838. Agì tra il 1861 e il 1864, collaborando anche con Michele Caruso e Carmine Crocco. Fu fucilato a Melfi dai piemontesi il 29 novembre 1864. Aveva solo 26 anni.
Non troviamo parole migliori per qualificare Giuseppe Schiavone che quelle di Giuseppe Osvaldo Lucera: «Nella realtà Schiavone è stato un insorgente diverso rispetto a quelli che apparvero, subito dopo l’Unità, nel nostro Meridione d’Italia. Questa diversità consiste in un diverso modo d’interpretare il suo ruolo e di condurre la sua azione. Questa sua peculiarità lo ha dimostrato con atti ed atteggiamenti che hanno quasi tutti un forte contenuto umanitario misto ad una specie di solidarietà con la vittima, non comune e per niente diffusa in quel mondo; quasi un comportamento con evidenti connotati francescani nei confronti dei suoi stessi avversari. Non è entrato nell’Olimpo dei capibanda più rappresentativi del periodo postunitario perché non gli riuscì mai di raggiungere l’intuito militare, misto al disprezzo per il nemico, di un Caruso o il militarismo acceso e non scalfibile di un sergente Romano, come non riuscì mai a sprigionare una carica politica e carismatica che invece riuscì a possedere un personaggio come l’avvocato Tardìo, né tanto meno fu un trascinatore di uomini come invece seppe fare Crocco, nella sua Lucania. Ma pur rimanendo alle falde del monte Olimpo, oppure ad oltre metà strada dalla vetta, Schiavone si è comunque distinto non solo per le sue qualità d’animo di brigante buono, riconosciute anche dall’immaginario collettivo che lo colloca tra i migliori interpreti di quella favolosa epopea, ma quanto per la purezza rivoluzionaria, o meglio per essere stato un fedele interprete del ribellismo contadino di indubbia efficacia».
Noi crediamo che l’opera di Lucera su Giuseppe Schiavone contribuirà a far ascendere questo brigante pugliese nell’Olimpo dei protagonisti del brigantaggio post unitario. Come merita.
Schiavone entrò nell’esercito borbonico come militare di leva nell’anno 1859. All’arrivo di Garibaldi, nel 1860, il comandante del suo reggimento si consegnò al Nizzardo senza sparare un colpo di fucile. Schiavone, nel frattempo diventato sergente, rimase consegnato in caserma fino alla caduta di Gaeta nelle mani dei piemontesi. Disciolto l’esercito borbonico, fu congedato e costretto a tornare a casa. Senz’arte né parte. Decise allora, come tanti altri, di darsi alla macchia, anche per non rispondere alla leva obbligatoria voluta dai piemontesi.
La banda di Schiavone aveva un numero di componenti che variava tra le 40 e le 50 unità, tutte a cavallo. Ne facevano parte ex soldati, contadini, ecclesiastici, perseguitati dalla giustizia, fuggiaschi e molte donne. Unito ad altre bande riuscì a comandare fino a 250 uomini armati, tutti a cavallo.
Quando la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul Brigantaggio scese in Puglia, alla fine del gennaio 1863, Giuseppe Schiavone si mise ad osservare, dall’altura di un colle, la lunga colonna di soldati che l’accompagnavano. Scrive Lucera: «I commissari avevano soltanto sentito parlare di briganti, ma non ancora li avevano incontrati. L’unico a farsi vedere sui colli della sua Puglia fu proprio il brigante di Sant’Agata, tutto agghindato a festa per l’occasione».
Giuseppe Schiavone amò tante donne, ma quelle che segnarono la sua vita furono Rosa Giuliani e Filomena Pennacchio. La Giuliani lo consegnò ai boia piemontesi quando seppe che Filomena aspettava un figlio da Schiavone.
Prima di essere fucilato, Giuseppe Schiavone lanciò un grido disperato: «Popolo! Tu solo puoi ancora salvarmi, per te ho sempre combattuto!». Ed il popolo, perpetuandone la memoria fino a noi, lo ha salvato dalla morte.
Rocco Biondi
(Dalla mia prefazione al libro di Giuseppe Osvaldo Lucera: Giuseppe Schiavone - Brigante post unitario)
Non troviamo parole migliori per qualificare Giuseppe Schiavone che quelle di Giuseppe Osvaldo Lucera: «Nella realtà Schiavone è stato un insorgente diverso rispetto a quelli che apparvero, subito dopo l’Unità, nel nostro Meridione d’Italia. Questa diversità consiste in un diverso modo d’interpretare il suo ruolo e di condurre la sua azione. Questa sua peculiarità lo ha dimostrato con atti ed atteggiamenti che hanno quasi tutti un forte contenuto umanitario misto ad una specie di solidarietà con la vittima, non comune e per niente diffusa in quel mondo; quasi un comportamento con evidenti connotati francescani nei confronti dei suoi stessi avversari. Non è entrato nell’Olimpo dei capibanda più rappresentativi del periodo postunitario perché non gli riuscì mai di raggiungere l’intuito militare, misto al disprezzo per il nemico, di un Caruso o il militarismo acceso e non scalfibile di un sergente Romano, come non riuscì mai a sprigionare una carica politica e carismatica che invece riuscì a possedere un personaggio come l’avvocato Tardìo, né tanto meno fu un trascinatore di uomini come invece seppe fare Crocco, nella sua Lucania. Ma pur rimanendo alle falde del monte Olimpo, oppure ad oltre metà strada dalla vetta, Schiavone si è comunque distinto non solo per le sue qualità d’animo di brigante buono, riconosciute anche dall’immaginario collettivo che lo colloca tra i migliori interpreti di quella favolosa epopea, ma quanto per la purezza rivoluzionaria, o meglio per essere stato un fedele interprete del ribellismo contadino di indubbia efficacia».
Noi crediamo che l’opera di Lucera su Giuseppe Schiavone contribuirà a far ascendere questo brigante pugliese nell’Olimpo dei protagonisti del brigantaggio post unitario. Come merita.
Schiavone entrò nell’esercito borbonico come militare di leva nell’anno 1859. All’arrivo di Garibaldi, nel 1860, il comandante del suo reggimento si consegnò al Nizzardo senza sparare un colpo di fucile. Schiavone, nel frattempo diventato sergente, rimase consegnato in caserma fino alla caduta di Gaeta nelle mani dei piemontesi. Disciolto l’esercito borbonico, fu congedato e costretto a tornare a casa. Senz’arte né parte. Decise allora, come tanti altri, di darsi alla macchia, anche per non rispondere alla leva obbligatoria voluta dai piemontesi.
La banda di Schiavone aveva un numero di componenti che variava tra le 40 e le 50 unità, tutte a cavallo. Ne facevano parte ex soldati, contadini, ecclesiastici, perseguitati dalla giustizia, fuggiaschi e molte donne. Unito ad altre bande riuscì a comandare fino a 250 uomini armati, tutti a cavallo.
Quando la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul Brigantaggio scese in Puglia, alla fine del gennaio 1863, Giuseppe Schiavone si mise ad osservare, dall’altura di un colle, la lunga colonna di soldati che l’accompagnavano. Scrive Lucera: «I commissari avevano soltanto sentito parlare di briganti, ma non ancora li avevano incontrati. L’unico a farsi vedere sui colli della sua Puglia fu proprio il brigante di Sant’Agata, tutto agghindato a festa per l’occasione».
Giuseppe Schiavone amò tante donne, ma quelle che segnarono la sua vita furono Rosa Giuliani e Filomena Pennacchio. La Giuliani lo consegnò ai boia piemontesi quando seppe che Filomena aspettava un figlio da Schiavone.
Prima di essere fucilato, Giuseppe Schiavone lanciò un grido disperato: «Popolo! Tu solo puoi ancora salvarmi, per te ho sempre combattuto!». Ed il popolo, perpetuandone la memoria fino a noi, lo ha salvato dalla morte.
Rocco Biondi
(Dalla mia prefazione al libro di Giuseppe Osvaldo Lucera: Giuseppe Schiavone - Brigante post unitario)
6 luglio 2010
Briganti meridionali
La storia del brigantaggio meridionale post unitario continua ad offrire a storici e ricercatori un vasto campo per approfondimenti e nuove scoperte. Gli archivi storici, che pur con riserva vengono messi a disposizione degli studiosi, svelano fatti ed avvenimenti che gli storici ufficiali e di regime hanno scientemente voluto ignorare e coprire.
L’aprioristica scelta di giustificare e convalidare comunque l’intervento piemontese nel Meridione d’Italia viene con progressivo e sempre maggiore vigore contestata sia da storici accademici che irregolari.
Cavour, Garibaldi ed altri personaggi, che la prosopopea risorgimentale ha voluto mitizzare, vengono declassati e valutati per il reale contributo che hanno fornito a quella che ormai molti chiamano la malaunità d’Italia.
Quella parte di storia italiana che inizia dal 1860 si arricchisce di nuovi personaggi e nuovi protagonisti che se avessero avuto il sopravvento avrebbero evitato a noi meridionali tanti lutti e tante sventure che durano fino ai giorni nostri.
Giuseppe Osvaldo Lucera ha sviluppato questi temi in quattro ponderosi volumi intitolati Vicende di un’altra storia. In essi ha affrontato le varie questioni attinenti all’Italia risorgimentale e alla volontà espansionistica savoiarda, dandone una lettura diversa da quella di regime. Mazzini, Cavour, Garibaldi vengono qualificati come “cattivi maestri”. La spedizione dei Mille viene descritta per quello che veramente è stata: storia di tradimenti, corruzioni, truffe, frodi, inganni, soprusi.
Nuovi personaggi irrompono legittimamente sulla scena storica. Sono la stragrande maggioranza degli abitanti che nel 1860 vivevano nel Regno delle Due Sicilie, aggredito, invaso ed annientato senza alcuna dichiarazione di guerra. Per la maggior parte erano contadini.
Essi non vennero chiamati ad esprimere la loro opinione nel plebiscito di adesione al Regno del Piemonte. In quel plebiscito-truffa votarono solamente i “galantuomini”.
Quasi tutti gli abitanti del Sud si opposero e si ribellarono. Il braccio armato di questa resistenza ai sardo-piemontesi furono i briganti, che per noi hanno solo ed esclusivamente una connotazione positiva. Erano insorgenti, resistenti, giustizieri, guerriglieri e non delinquenti.
Il brigantaggio fu un vero e proprio fenomeno di sollevazione di popolo, con aspetti fortemente sociali e politici.
Moltissime furono le bande di briganti che operarono in tutte le regioni del Sud d’Italia.
In Basilicata agirono Carmine Crocco Donatelli, Giuseppe Nicola Summa (Ninco-Nanco), Michele Volonnino, Donato Tortora, Caporal Teodoro Gioseffi e molti altri.
In Puglia operarono il sergente Pasquale Romano, Cosimo Mazzeo (Pizzichicchio), Giuseppe Nicola La Veneziana, Antonio Lo Caso (Il capraro), Riccardo Colasuonno (Ciucciarello), Francesco Monaco, Giuseppe Valente (Nenna-Nenna), Michele Caruso, Angelo Maria Villani (lo Zambro).
Altri importanti briganti meridionali post unitari furono Luigi Alonzi (Chiavone), Giuseppe Tardìo, Francesco Guerra, i fratelli Cipriano e Giona La Gala, Agostino Sacchitiello, Gaetano Manzo, Antonio Cozzolino (Pilone) e tanti altri.
Franco Molfese nella sua fondamentale Storia del Brigantaggio dopo l’Unità individua ben 388 bande, dalle piccole, composte di pochi individui (5-15), fino alle grandi, che raggiunsero e superarono talvolta i 100 uomini, con punte fino a 300-400 componenti.
Sul teatro di guerra della resistenza meridionale antipiemontese, a fianco dei briganti, entrarono in scena anche molti stranieri (quasi tutti ufficiali di eserciti vari): José Borges, Alfredo de Trazegnies, Rafael Tristany, Edwin Kalkreuth, Emile de Christen, Ludwig Richard Zimmermann e altri.
Rocco Biondi
(Dalla mia prefazione al libro di Giuseppe Osvaldo Lucera: Giuseppe Schiavone - Brigante post unitario)
L’aprioristica scelta di giustificare e convalidare comunque l’intervento piemontese nel Meridione d’Italia viene con progressivo e sempre maggiore vigore contestata sia da storici accademici che irregolari.
Cavour, Garibaldi ed altri personaggi, che la prosopopea risorgimentale ha voluto mitizzare, vengono declassati e valutati per il reale contributo che hanno fornito a quella che ormai molti chiamano la malaunità d’Italia.
Quella parte di storia italiana che inizia dal 1860 si arricchisce di nuovi personaggi e nuovi protagonisti che se avessero avuto il sopravvento avrebbero evitato a noi meridionali tanti lutti e tante sventure che durano fino ai giorni nostri.
Giuseppe Osvaldo Lucera ha sviluppato questi temi in quattro ponderosi volumi intitolati Vicende di un’altra storia. In essi ha affrontato le varie questioni attinenti all’Italia risorgimentale e alla volontà espansionistica savoiarda, dandone una lettura diversa da quella di regime. Mazzini, Cavour, Garibaldi vengono qualificati come “cattivi maestri”. La spedizione dei Mille viene descritta per quello che veramente è stata: storia di tradimenti, corruzioni, truffe, frodi, inganni, soprusi.
Nuovi personaggi irrompono legittimamente sulla scena storica. Sono la stragrande maggioranza degli abitanti che nel 1860 vivevano nel Regno delle Due Sicilie, aggredito, invaso ed annientato senza alcuna dichiarazione di guerra. Per la maggior parte erano contadini.
Essi non vennero chiamati ad esprimere la loro opinione nel plebiscito di adesione al Regno del Piemonte. In quel plebiscito-truffa votarono solamente i “galantuomini”.
Quasi tutti gli abitanti del Sud si opposero e si ribellarono. Il braccio armato di questa resistenza ai sardo-piemontesi furono i briganti, che per noi hanno solo ed esclusivamente una connotazione positiva. Erano insorgenti, resistenti, giustizieri, guerriglieri e non delinquenti.
Il brigantaggio fu un vero e proprio fenomeno di sollevazione di popolo, con aspetti fortemente sociali e politici.
Moltissime furono le bande di briganti che operarono in tutte le regioni del Sud d’Italia.
In Basilicata agirono Carmine Crocco Donatelli, Giuseppe Nicola Summa (Ninco-Nanco), Michele Volonnino, Donato Tortora, Caporal Teodoro Gioseffi e molti altri.
In Puglia operarono il sergente Pasquale Romano, Cosimo Mazzeo (Pizzichicchio), Giuseppe Nicola La Veneziana, Antonio Lo Caso (Il capraro), Riccardo Colasuonno (Ciucciarello), Francesco Monaco, Giuseppe Valente (Nenna-Nenna), Michele Caruso, Angelo Maria Villani (lo Zambro).
Altri importanti briganti meridionali post unitari furono Luigi Alonzi (Chiavone), Giuseppe Tardìo, Francesco Guerra, i fratelli Cipriano e Giona La Gala, Agostino Sacchitiello, Gaetano Manzo, Antonio Cozzolino (Pilone) e tanti altri.
Franco Molfese nella sua fondamentale Storia del Brigantaggio dopo l’Unità individua ben 388 bande, dalle piccole, composte di pochi individui (5-15), fino alle grandi, che raggiunsero e superarono talvolta i 100 uomini, con punte fino a 300-400 componenti.
Sul teatro di guerra della resistenza meridionale antipiemontese, a fianco dei briganti, entrarono in scena anche molti stranieri (quasi tutti ufficiali di eserciti vari): José Borges, Alfredo de Trazegnies, Rafael Tristany, Edwin Kalkreuth, Emile de Christen, Ludwig Richard Zimmermann e altri.
Rocco Biondi
(Dalla mia prefazione al libro di Giuseppe Osvaldo Lucera: Giuseppe Schiavone - Brigante post unitario)