Moana Pozzi non è morta, né mai morirà. E' stato trovato l'ultimo film di Moana intitolato "L'ultima volta". Ma c'è chi dice che quello in realtà non sia stato l'ultimo film girato da Moana. Moana scomparve il 15 settembre 1994. Ma non è detto che sia morta.
http://www.tgcom24.mediaset.it/spettacolo/2014/notizia/moana-pozzi-ecco-l-ultimo-film-visionato-in-esclusiva-da-lucignolo-_2027497.shtml
http://www.leggo.it/GOSSIP/NEWS/moana_pozzi_ultimo_film/notizie/524782.shtml
19 febbraio 2014
12 febbraio 2014
Il custode del museo delle cere, di Raffaele Nigro
Un
romanzo di Raffaele Nigro, per poterlo comprendere appieno nella sua ricchezza
letteraria e di contenuti, bisogna leggerlo; non può essere raccontato. Una
recensione può solo riportare degli elementi della cornice e fare delle
citazioni estrapolando quasi a caso, per invogliare alla sua lettura.
La storia si svolge nel museo delle cere
(esistente solo nel romanzo) di Bari, visitato da un nonno, anziano professore,
e da suo nipote, un giovane di oggi, uno di quelli che si sentono hard disk da
riempire.
Le statue di cera si muovono e parlano.
I personaggi appartengono alla storia delle
varie epoche, dalle antiche alle odierne, che Nigro ha studiato ed amato.
Il modo di parlare delle statue di cera rivela
la classe sociale a cui appartengono.
Nazim Hikmet è un gigante della
letteratura, uno di quelli che si sono schierati dalla parte dei contadini in
una terra dove venivano trattati da schiavi e ha fatto della politica la
ragione della sua scrittura. Un vero socialista.
Kaleb racconta del poliziotto turco Mansur
Madhia, contrario all’ingresso della Turchia in Europa, che si fece esplodere
imbottito di tritolo divenendo per il popolo un santo ed un eroe. Lui era per
l’affiliazione al mondo orientale, alla fratellanza araba. Lui era per la
tradizione, anche se «i giovani adesso disprezzano la tradizione, che li fa
sentire fuori dal mondo, e si cercano nelle discoteche, bevono alcol di
nascosto e fumano hashish e marijuana».
Nella seconda stanza c’erano cumuli di
paglia sparsi sul pavimento. La stanza era dedicata ai barbari. Il longobardo
Erchemperto racconta la sua storia e di come ebbe una mano mozzata.
Il monaco Cassiodoro di Squillace cominciò
a raccontare senza aspettare inviti. Lì, sulla collina, aveva realizzato scriptoria cenobi archivi librerie, dove
venivano recuperati documenti devastati dal tempo e dalle fiamme, venivano
trascritti antichi codici. La sua fu una vita di scritture e libri, retorica e
politica, dopo aver tentato di mettere insieme Goti e Latini. Lui romano si
innamorò di una gota, per la quale scriveva che «l’amore è un gioco di violenza
e di tenerezze, di fughe e di attrazioni». I libri erano per lui la vera
grandezza dell’Ottocento. Anche se vi è uno scarto tremendo tra la serenità
della scrittura e la ferocia della vita.
Alla destra poi erano state collocate due
creature di cera identiche tra loro come gocce d’acqua: le sorelle Kessler. E
leggermente in disparte le statue di Elvis Presley, Marilyn Monroe, Marcello
Mastroianni, Charlie Chaplin, Liz Taylor, Richard Burton, James Dean, Brigitte
Bardot e Carmelo Bene.
Un occhio di bue illuminò quest’ultimo, che
aveva la calzamaglia nera e lo sguardo reso intenso dal rimmel. Bene si
riteneva un fallito e un infelice, che era apparso alle Madonne che – dice – «restavano
incantate alla mia apparizione e alle mie bestemmie ed erano festose a quella
liberazione dalla tragedia popolare o dal Sant’Uffizio». Apparve anche a Cristo
penitente e al mondo intero a capo dei cavalieri dell’Apocalisse. «Ho
affrontato gli eserciti della convenzione borghese e devastato sconquassato e
distrutto. Dopo aver combattuto contro i mulini della classicità sono diventato
un mulino a vento della classicità».
Una stanza e buona parte del romanzo sono
dedicate alle statue di cera degli Hohenstaufen di Svevia. Federico II, che
faceva sempre il contrario di quello che il cieco falco monitore gli suggeriva
(era il gioco del falco che sapendo Federico restio ad accettare consigli gli
suggeriva sempre il contrario di quello che lui voleva che facesse); si era circondato
di artisti, filosofi e scienziati; si era dichiarato libero dalle falsità e
dalle chiacchiere della Chiesa. Bianca Lancia, che fu la quarta moglie di
Federico e imperatrice per pochi giorni. Manfredi, figlio di Federico e di
Bianca, scendeva in battaglia con la stessa facilità con cui usava la penna.
Gottfred di Magonza, falconiere e spia del papa presso Federico.
Una delle ultime sale del museo
rappresentava un corteo funebre, al quale prendevano parte le statue di Elio
Vittorini, Carlo e Primo Levi, Natalia Ginzburg, Cesare Pavese, Amelia
Rosselli, Rocco Scotellaro, Fernanda Pivano, Tommaso Fiore, Vasco Pratolini,
Oriana Fallaci, Giangiacomo Feltrinelli, Ignazio Silone, Gino Montesanto,
Pierpaolo Pasolini, Leonardo Sciascia e altri; era il funerale di Raffaele
Crovi.
A me ha interessato in modo particolare la
sezione del museo dedicata ai re Borbone e ai briganti. Ci sono le statue di
Carmine Crocco, Fra’ Diavolo, Gaetano Mammone, Panedigrano, Peppe Caruso, Maria
Oliverio, Maria Giovanna Tito, Filomena Pennacchio e altri. «Eravamo finalmente
in sintonia con i temi del nonno: braccianti, contadini e briganti». A raccontare
la sua storia è il brigante Giuseppe Schiavone di Sant’Agata di Puglia. Sotto i
Borbone entra a fare il servizio militare, ha una buona mira e mano ferma, sa
leggere e scrivere e viene promosso sergente. Sotto le armi conosce il sergente
Pasquale Romano di Gioia del Colle. Quando «il Regno si squaglia come il lardo»
viene spedito al suo paese e subito dopo richiamato in servizio per indossare
la divisa piemontese. Se ne scappa e diviene brigante. Inizialmente si associa
alla banda di Carmine Crocco, ma poi diventa capobrigante formando una sua
banda, dando vita a parecchie azioni vittoriose. Si innamora pazzamente di
Filomena Pennacchio e la mette incinta. Ma Rosa Giuliani, la precedente donna
di Schiavone, non potendolo avere per sé lo consegna a tradimento ai
piemontesi. Il monaco Francesco da Paola [nato nel 1416 e morto il 1507] volle
ricambiarlo del favore di aver salvato dalla distruzione il comune di Montemale
di Benevento; convinse le guardie a farlo incontrare con Filomena per
consegnarle l’abitina di sant’Anna. In pratica Schiavone consegnò Filomena alle
guardie, ma così facendo la salvò e salvò suo figlio.
Un piano del museo prese fuoco per un corto
circuito e le statue di cera si liquefecero.
Oltre alle statue dei personaggi che ho
citati, tante altre fanno parte del museo delle cere di Raffaele Nigro, che
forse è il vero e buono custode di quel museo.
Rocco Biondi
1 febbraio 2014
Sud, tutta un’altra storia, di Antonella Musitano
Potremmo
dividere il libro in due parti, una di ricerca storica negli archivi calabresi,
l’altra di denuncia della mala unità contro il Sud. La prima è esplicitata nel
sottotitolo Platì: un caso emblematico di
“brigantaggio”, dove si parla del brigante Ferdinando Mittiga. La seconda
affronta i temi caldi del meridionalismo: l’invasione del Regno delle Due
Sicilie, la protesta dei briganti, la loro repressione da parte dei piemontesi,
la centocinquantennale politica nordista contro il Sud.
Platì è un paese, collocato ai piedi
dell’Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria, dove nacque ed operò
Ferdinando Mittiga. Il nome di questo brigante già compare durante i moti
liberali del 1847/48, verificatisi sulla costa jonica di Bovalino e Ardore,
quando venne liberato dal carcere. Le insurrezioni di quegli anni fallirono e
la repressione borbonica fu durissima, ma il Mittiga si mise a capo di una
banda per portare avanti la sua lotta per la giustizia sociale e chiudere i
conti con i ricchi “signori”, riscattando la povera gente da abusi e soprusi.
Era un proprietario terriero (per questo motivo il suo nome lo si trova sugli
atti ufficiali preceduto dal prefisso “don”, riservato a persone appartenenti
al ceto elevato), che però aveva scelto di stare dalla parte degli umili e
degli oppressi.
Proprio alla collaborazione di Mittiga
fecero riferimento nel 1861 i comitati borbonici quando decisero di far partire
dalla Calabria l’impresa insurrezionale, affidata al generale spagnolo José
Borges, nel tentativo di riportare sul trono di Napoli i Borbone. Allora la
banda Mittiga contava oltre duecentocinquanta uomini, provenienti da Platì e dai
paesi limitrofi, e lui era imprendibile perché godeva dell’appoggio del popolo
che lo riconosceva come il “suo eroe”.
Merito della Musitano è l’aver reperito
nell’Archivio di Stato di Reggio Calabria e aver trascritto in questo libro
alcuni documenti originali relativi alle vicende della banda Mittiga. Sono 46
pagine dei Processi Penali della Corte d’Assise di Reggio Calabria e due pagine
del Gabinetto di Prefettura della stessa città. La lettura di questi testi
permette di ricostruire con esattezza le vicende che ebbero per protagonisti
Mittiga e la sua banda, dallo sbarco sulle coste calabresi del generale
spagnolo José Borges, all’assalto di Platì, alla uccisione avvenuta il 30
settembre 1861 ad opera dei piemontesi dello stesso Don Ferdinando, cui venne
mozzata la testa e portata in giro per il paese come monito e come trofeo.
Anche parecchi anni dopo la morte, Mittiga incuteva ancora paura ai ricchi
possidenti e si perseguitavano i suoi discendenti.
La seconda parte del libro comincia con un
capitolo che risponde affermativamente alla domanda se l’unità d’Italia sia
stata un’illusione. Il Sud non veniva liberato dalla presenza di un sovrano
straniero, ma con una guerra non dichiarata e nel totale disprezzo del diritto
internazionale veniva “liberato” dal suo sovrano legittimo. In pratica lo Stato
unitario fu un ampliamento del Piemonte sabaudo. Con l’uso delle armi venne
imposta la monarchia centralistica dei Savoia, divenendo una vera conquista. I
contadini meridionali si resero subito conto che per loro nulla sarebbe
cambiato e che la loro “fame di terra” sarebbe rimasta inappagata. E reagirono
con l’unico modo di cui disponevano: la ribellione. E si organizzarono in bande
sempre più numerose, guidate da capi dotati di un forte carisma e sostenute
dalle masse popolari. Nelle bande, accanto ai contadini, confluirono renitenti
alla leva (divenuta obbligatoria) ed ex soldati borbonici (licenziati e mandati
a casa).
In risposta il nuovo Stato inviò nel
Mezzogiorno 120.000 soldati, trasformando la conquista del Sud in una vera e
propria guerra civile, che vedeva contrapposti da una parte l’esercito
piemontese e dall’altra i contadini meridionali. Fu proclamato lo stato d’assedio,
furono istituiti i tribunali speciali, vennero eseguite esecuzioni sommarie
tramite fucilazione, vennero incendiate masserie ed interi paesi. Le bande
contadine meridionali a queste violenze risposero con altre forme di violenza.
Vennero deportati al nord in campi di
concentramento migliaia di meridionali, in massima parte ex soldati
dell’esercito borbonico; fra questi campi tristemente famoso fu quello di
Fenestrelle.
Venne emanata la legge razziale Pica, che
prevedeva non solo l’arresto e la fucilazione dei presunti briganti, ma anche
il fermo dei loro parenti fino al terzo grado e il domicilio coatto per motivi
politici. Questa legge divenne in pratica – scrive la Musitano – una potente
arma per eliminare ogni forma di dissenso e per instaurare un generale clima di
terrore. Vennero di fatto legalizzati i comportamenti repressivi e
antidemocratici già usati dall’esercito nella lotta al brigantaggio.
In questa guerra vinsero i più forti: i
piemontesi; i briganti, i primi veri partigiani della storia d’Italia, vennero
sconfitti e con essi venne sconfitto il Mezzogiorno. Sconfitta che allunga i
suoi effetti negativi fino ai nostri giorni.
I piemontesi teorizzarono la presunta bontà
del loro comportamento con la teoria lombrosiana dell’uomo delinquente. Così
Musitano riassume questa teoria: «I meridionali erano delinquenti nati e
rappresentavano un regresso, una involuzione nel processo involutivo, pertanto
la loro eliminazione rappresentava una forma di tutela della società».
Nel libro viene infine riportata l’opinione
di Francesco Saverio Nitti, nato a Melfi in Basilicata e Presidente del
Consiglio Italiano nel 1919, espressa nella sua opera “Nord e Sud” pubblicata nel 1900.
In essa vengono analizzati i provvedimenti adottato dallo Stato Unitario e le
conseguenze negative che avevano determinato nell’economia meridionale.
L’abolizione delle tariffe doganali causò il quasi totale crollo di tutte le
industrie esistenti nell’ex Regno delle Due Sicilie prima del 1860: l’industria
siderurgica delle Serre calabresi, le industrie metallurgiche e meccaniche del
napoletano, quelle delle vetrerie e della ceramica; le misure protezionistiche
per le importazioni di cereali avvantaggiava l’agricoltura settentrionale e
metteva in crisi quella meridionale.
Il Regno delle Due Sicilie, al momento
dell’Unità, possedeva tra gli Stati preunitari la maggiore ricchezza monetaria
ed aveva il minore debito pubblico; secondo Nitti il Piemonte, per scongiurare
il fallimento, unificò il suo debito con quello napoletano; l’unificazione del
debito provocò uno spostamento di ricchezze dal sud al nord. Nitti dimostra
come, dopo aver spostato i capitali da sud a nord e dopo aver elevato a
vantaggio del nord la pressione fiscale, fu nel nord che si concentrarono
massimamente le spese sostenute dallo Stato con il denaro pubblico; e quel poco
che veniva fatto nel Mezzogiorno, veniva appaltato quasi esclusivamente a ditte
settentrionali.
Lo studio di Nitti sfata molti luoghi
comuni esistenti contro il Sud: è l’Italia settentrionale ad avere più
impiegati pubblici, l’imposta fondiaria era più gravosa al Sud, nel campo
dell’istruzione si è investito in massima parte al nord. Orientamento analogo
anche nel campo dei lavori pubblici, per la costruzione della rete ferroviaria,
le spese per la marina e per l’esercito.
L’opera di Nitti mette in risalto come il
Sud, dopo l’Unità, sia diventato il mercato coloniale interno per i prodotti
del nord. Riletta oggi, risulta di grande attualità.
Nelle conclusioni la Musitano richiama i
concetti espressi più volte da Lino Patruno (anche nella prefazione): non vi
può essere il rilancio dell’Italia tutta se non vi sarà la crescita del
Mezzogiorno, bisogna guardare al Sud come una risorsa e non come un problema.
Qui si ferma l’analisi della Musitano. Ma si
dovrebbe anche dare una risposta alla domanda: se questa analisi non viene
capita o non viene accettata dal mondo politico ed economico italiano noi
meridionali cosa dovremmo fare?
Rocco Biondi
Antonella Musitano, Sud, tutta un’altra storia. Platì 1861: un caso emblematico di
“brigantaggio”, prefazione di Lino Patruno, Laruffa Editore, Reggio
Calabria 2013, pp. 200, € 13,00