Sabato 24 aprile 2010 - ore 19,00
Sala Consiliare Comune di Villa Castelli (Brindisi) - Piazza Municipio
Nell'ambito dei “Sabati Briganteschi” (ultimo sabato di ogni mese), organizzati dall'Associazione “Settimana dei Briganti - l'altra storia”, Valentino Romano presenta in prima assoluta il suo libro “Nacquero contadini, morirono briganti”, edito da Capone Editore.
Introdurranno Flavia Perrotti, docente di Lettere presso il Liceo Classico “Marco Terenzio Varrone” di Rieti, e Annalisa Montinaro, editore e scrittrice.
Per comprendere pienamente il brigantaggio postunitario meridionale, liberandolo da ogni orpello ideologico bisogna calarsi nel mondo contadino dell’epoca che ne è il substrato culturale e sociale. Le storie riportate, sono state recuperate pazientemente in anni di scavi archivistici da Valentino Romano e aprono uno squarcio interessante, spesso inedito, su questo mondo nel quale convivono e si scontrano tutti insieme cafoni e galantuomini, idealisti e profittatori, ultimi eroi romantici e avventurieri di sempre, mestatori e doppiogiochisti, briganti e soldati, vittime e carnefici, sbirri e grassatori, giudici e imputati, carnefici e condannati, preti avidi e monaci intriganti, mogli e amanti, eroine e puttane: comparse che affollano il Sud, palco di speranze, di illusioni e di delusioni sul quale, malinconicamente dissoltosi il Regno delle Due Sicilie, va in scena la nuova Italia. I briganti ci appaiono come feroci e sanguinari individui e sono conosciuti soltanto per le loro imprese o per la loro fine tragica. Ma della loro umanità, delle loro passioni, delle loro debolezze quasi mai nessuno se ne è occupato. A questo vuoto ideologico, dice Zanetov nella sua prefazione, ha rimediato Valentino Romano e nelle pagine che ha scritto “ci sono dolore e leggerezza insieme, crudeltà e amore: c’è umanità e disumanità come antinomia della stessa essenza: quella della realtà fatta di carne, delle sue pulsioni…”, come ha aggiunto la Mazzitelli nella sua postfazione.
Valentino Romano ha voluto dimostrare anche che in una storia tragica ed esaltante come quella del brigantaggio non ci sia bisogno di inventare nulla, è sufficiente leggere le carte e raccontarle. Così le storie che ha tratto dagli archivi sono assolutamente vere e rappresentano squarci di un affresco del mondo contadino, della sua rabbia, delle sue rivolte, delle sue tenerezze, dei suoi limiti. Le storie sono il pretesto a cui l’autore ricorre per avvicinare il lettore alle problematiche del periodo, dapprima per coinvolgerlo emotivamente e poi per farlo riflettere sui silenzi e sulle mistificazioni della storia ufficiale.
Lo sforzo di Valentino Romano non è tanto quello di giustificare o esecrare, ma scavare nelle stratificazioni ideologiche e riportare alla luce l’uomo del Sud di ieri, con i suoi pregi e i suoi limiti, e riproporlo a quello di oggi; e a questi, ad esempio, fa chiedere da Ninco Nanco, attraverso un documento inedito da lui scoperto: “voi al posto mio che cosa avreste fatto?”.
Dopo la presentazione del libro di Valentino Romano verrà inaugurata la sede dell'Associazione "Settimana dei Briganti - l'altra storia", sita nella strada Pasquale Romano / Sergente Brigante. Questa strada era un vicolo di Via Garibaldi ed è la prima in tutta l'Italia che viene intitolata al Sergente Romano, un brigante legittimista nato a Gioia del Colle (Bari) nel 1833 e morto ucciso dai piemontesi il 5 gennaio del 1863.
L'iniziativa dell'intitolazione di una strada al sergente brigante Pasquale Domenico Romano in Villa Castelli (Brindisi) è dell'Associazione “Settimana dei Briganti - l'altra storia”.
21 aprile 2010
3 aprile 2010
Terroni, di Pino Aprile
“Terroni” di Pino Aprile è un libro di guerriglia (culturale), che se applicata potrebbe liberare noi meridionali dalla minorità alla quale ci hanno educato durante i centocinquant'anni di unità d'Italia. Da questa prigione si può evadere, la porta non è chiusa. E qualcuno comincia a sbirciare fuori.
Bisogna tornare a ricordare chi eravamo. Nel 1860 il Regno delle Due Sicilie era dal punto di vista industriale al terzo posto nel mondo dopo Gran Bretagna e Francia ed addirittura al primo in molte innovazioni tecniche e libertà civili. I Savoia piemontesi ci hanno espropriato di tutto. Un esempio per tutti è quello che hanno fatto di Mongiana, il più ricco distretto minerario e siderurgico dell'Italia intera, situato in Calabria. L'acciaio di Mongiana rese autonomo il Regno nella produzione di travi per la costruzione di ponti sospesi in ferro e per la cantieristica della seconda flotta mercantile al mondo, dopo quella inglese. L'arsenale di Castellamare era il più grande del Mediterraneo. L'acciaio calabrese forniva i binari per l'industria ferroviaria napoletana di Pietrarsa, dove venivano fabbricate anche motrici navali. La siderurgia calabrese fu soppressa dal governo unitario solo perché era situata nel Meridione; l'industria italiana doveva essere settentrionale. A Mongiana, quando fu chiusa, lavoravano 1.200 operai.
I piemontesi, quando centocinquant'anni fa invasero il nostro Meridione, fecero terra bruciata (in alcuni casi letteralmente) di tutto ciò che di buono avevamo. Saccheggiarono le nostre città, stuprarono le nostre donne, rasero al suolo e bruciarono tanti paesi, praticarono la tortura più spietata, fucilarono senza processo e senza condanna tanti contadini, incarcerarono donne e bambini, aprirono al Nord campi di concentramento e sterminio dove tormentarono e fecero morire tanti italiani del Sud squagliandoli poi nella calce viva, quelli del Nord s'inventarono leggi speciali per annientare noi meridionali, venne depredato tutto l'oro del Regno (le lire-oro napoletane costituivano i due terzi della ricchezza di tutta l'Italia messa insieme), vennero trafugate le opere d'arte dei ricolmi nostri musei.
L'impoverimento del Meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza, ma la ragione dell'Unità d'Italia.
I nostri padri briganti tentarono di reagire a questi immani soprusi e in alcuni momenti sembrò che potessero avere il sopravvento, ma così non fu. «Fummo calpestati e ci vendicammo», disse per tutti un brigante. I piemontesi schierarono contro di noi nel Sud i due terzi dell'intero esercito italiano. E fu una carneficina. Secondo alcuni vi furono circa un milione di morti fra i meridionali.
Ma la storia ufficiale ignora queste verità. I libri di storia che circolano nelle scuole di ogni ordine e grado tacciono. I documenti che ancora non sono stati distrutti vengono nascosti. I meridionali, man mano che ci si allontanava dai tempi in cui quei fatti accaddero, dimenticavano e rimuovevano. «Noi non sappiamo più chi fummo - scrive Aprile -. Ed è accaduto che i meridionali abbiano fatto propri i pregiudizi di cui erano oggetto. E che, per un processo d'inversione della colpa, la vittima si sia addossata quella del carnefice».
Qualcosa però sta cambiando negli ultimi anni. Vengono fatti tantissimi convegni dove si dibatte del Regno delle Due Sicilie, del Brigantaggio, degli eccidi patiti, della storia dimenticata. Sono nate case editrici specializzate su questi argomenti, come “Controcorrente” e “Editoriale Il Giglio”. Vengono pubblicati periodici come “L'Alfiere”, “Due Sicilie”, “Il Brigante”, “Nazione Napoletana”, “Nuovo Sud”. Sul Web fioriscono siti e blog che fanno informazione militante. Il silenzio-assenso del Meridione sta per finire. Forse siamo condannati all'ottimismo, scrive Aprile.
Le famiglie meridionali si sentono onorate se scoprono di aver avuto fra i loro antenati un brigante. Il termine “brigante” comincia ad assumere una connotazione positiva, come deve essere.
Pino Aprile è nato a Gioia del Colle, la patria del Sergente Romano, in provincia di Bari. Suo padre gli parlava del Romano come di un messia, non come di un delinquente. Era imprendibile, coraggioso, abile in campo aperto, ma più in azioni di commando, trasformò il brigantaggio in guerra civile e legittimista. I piemontesi occupanti dovettero impiegare migliaia fra soldati, carabinieri e guardie nazionali, per riuscire a isolare, catturare e uccidere Pasquale Domenico Romano, ex ufficiale borbonico.
Alessandro Romano, un discendente di Pasquale Domenico Romano, raccoglie e conserva cimeli appartenuti al famoso capo brigante legittimista e rinverdisce riattualizzandoli fatti ed episodi del Regno delle Due Sicilie. Ma più ancora vuole trovare le prove della memoria perduta, setacciando archivi comunali, notarili, ecclesiastici, biblioteche. Suo zio Salvatore gli aveva detto: «Quello che sta nei libri di storia so' bugie: i piemontesi non hanno unificato l'Italia, hanno allargato il Piemonte e a noi Romano c'hanno rovinato. Non è vero che Garibaldi fu accolto come liberatore. Non è vero che i Borbone erano tiranni. Non è vero che al Sud c'erano fame e miseria: dal Sud non se ne andava nessuno. Allora». E Alessandro sta scoprendo e comunicando agli altri che tutto quello che gli diceva zio Salvatore era vero. «Noi siamo per l'Italia una e indivisibile - conclude Alessandro -, è nata con i soldi che ci hanno preso e col nostro sangue. La federazione andava fatta prima, non dopo che ci hanno fregato tutto. Ma la verità la voglio. Bisogna riequilibrare la storia».
Altri vogliono accelerare i tempi. Antonio Ciano, di Gaeta, è il fondatore del “Partito del Sud”, che è presente in Lazio, Campania, Sicilia e vorrebbe allargarsi a tutto il Sud. Nelle ultime elezioni amministrative a Gaeta, città-simbolo della resistenza all'invasione piemontese, il Partito del Sud di Ciano e una lista civica vinsero. «Dopo centoquarantasette anni ci siamo ripresi la fortezza» proclamò Ciano. E per i centocinquant'anni dell'Unità d'Italia, la città di Gaeta ha avviato le procedure per chiedere ai Savoia il risarcimento dei danni dell'assedio del 1861: duecentosettanta milioni di euro. Oltre ai bombardamenti, quell'anno i piemontesi per riscaldarsi distrussero centomila ulivi. Di trecento frantoi non ne rimane uno. Ed ora, conclude Ciano, siamo per l'Italia unita. «L'Italia fu unita col sangue nostro, i soldi nostri rubati e portati al Nord. E mo' ce la teniamo: l'abbiamo pagata. Siamo repubblicani e unitaristi».
La mala unità ha diffuso i suoi malefici effetti per centocinquant'anni, dal 1861 ai giorni nostri. I nordisti italiani hanno sfruttato noi meridionali e continuano a farlo. Giustino Fortunato nel 1923 scriveva a Benedetto Croce: «Non disdico il mio unitarismo. Ho soltanto modificato il mio giudizio sugli industriali del Nord. Sono dei porci più porci dei maggiori porci nostri».
Con i soldi del Sud furono pagati i debiti del Nord. Fu demolita un'economia promettente e minata la sua rinascita con meccanismi di preclusione che funzionano ancora dopo centocinquant'anni. Il fascismo prima ed il berlusconismo oggi hanno portato avanti quest'impresa. I soldi dell'intero paese vengono dirottati in una sola parte del paese: da Roma in su. Solo lì si investe in strade, ferrovie, scuole, spese militari, porti, bonifiche. Dal 1860 al 1998 lo stato italiano ha speso in Campania duecento volte meno che in Lombardia, trecento volte meno che in Emilia, quattrocento volte meno che in Veneto. Nel 1996 si scoprì che l'Isveimer, banca nata per aiutare lo sviluppo del Sud, finanziava la Fininvest di Berlusconi, con quattrocentocinquanta miliardi.
Un esempio mastodontico della chiusura dell'Italia unita verso il Mezzogiorno è la costruzione della strada Salerno-Reggio Calabria, dai tempi biblici. La Cgil ha calcolato che, con l'attuale ritmo di sette chilometri all'anno, la Salerno-Reggio Calabria sarebbe stata completata nel 2040. Se tutto va bene. I gruppi che si aggiudicano i lavori sono sempre gli stessi, con successiva parcellizzazione in una miriade di subappalti, governati dalla 'ndrangheta, che è diventata la più moderna e internazionale delle mafie. Le cosche riscuotono, federate, il 3 per cento degl'importi. A chi paga non succede niente. Successivamente questi soldi tolti al Sud vengono investiti al Nord; né più né meno di come avviene con le banche e con Tremonti. Fermando la 'ndrangheta forse si fermerebbero per anni i lavori sull'autostrada. E questo non conviene a nessuno. Non converrebbe all'Anas, ai grandi gruppi nazionali, alla politica, agli stessi calabresi. C'è forse un interesse collettivo a non finire l'autostrada. La Salerno-Reggio Calabria, così letta, è uno strumento nazionale e locale di educazione alla minorità meridionale.
Che fare? Come ribellarsi all'oppressione dei nordisti che considerano noi meridionali “ottentotti”, “irochesi”, “beduini”, “peggio che Affrica”, “degenerati”, “ritardati”, “selvaggi”, “degradati”? Pino Aprile una soluzione la suggerisce. Tornare soli. Se si dovesse giungere alla separazione Nord-Sud, in Italia, i conti andrebbero fatti finalmente e dovrebbero contemplare i danni e i furti dell'invasione e quelli di centocinquant'anni di strabismo di stato alpino. Ma quanto varrebbe il Meridione, staccato dal resto d'Italia? Poco. Ma da soli, avremmo la possibilità di trasformare i nostri ritardi in occasioni di sviluppo. Non dovendo più “far media” con il reddito del Nord, diverremmo immediatamente il paese europeo ad avere maggiore diritto agl'incentivi economici per lo sviluppo; con un impagabile vantaggio aggiuntivo: che i soldi dell'Europa per il Sud, resterebbero al Sud. Solo dopo ci si potrebbe rimettere insieme, ma da pari.
Ma nell'attesa di questa radicale soluzione, l'emigrazione - scrive Aprile - può essere un giacimento di valori (anche economici), una ricchezza, se si riannodano i fili con chi, dei nostri, ha mostrato capacità in tanti campi, altrove. E se riusciamo a coinvolgerli in progetti che li riportino al Sud, con la quantità e varietà delle esperienze maturate.
In conclusione un'annotazione su di una cosa che non condivido: la larvata simpatia di Aprile per don Liborio Romano, l'uomo di Patù che consegnò il Regno delle Due Sicilie ai piemontesi. Per me don Liborio rimane un cattivo maestro risorgimentale insieme a Garibaldi, Cavour, Mazzini.
“Terroni” di Pino Aprile è un libro eccezionale da far leggere a tutti i Meridionali, anche con eventuali sunti alla Bignami per i più infingardi.
Rocco Biondi
Pino Aprile, Terroni. Tutto quello che é stato fatto perché gli Italiani del Sud diventassero "meridionali", Piemme, Milano 2010, pp. 306, € 17,50
Bisogna tornare a ricordare chi eravamo. Nel 1860 il Regno delle Due Sicilie era dal punto di vista industriale al terzo posto nel mondo dopo Gran Bretagna e Francia ed addirittura al primo in molte innovazioni tecniche e libertà civili. I Savoia piemontesi ci hanno espropriato di tutto. Un esempio per tutti è quello che hanno fatto di Mongiana, il più ricco distretto minerario e siderurgico dell'Italia intera, situato in Calabria. L'acciaio di Mongiana rese autonomo il Regno nella produzione di travi per la costruzione di ponti sospesi in ferro e per la cantieristica della seconda flotta mercantile al mondo, dopo quella inglese. L'arsenale di Castellamare era il più grande del Mediterraneo. L'acciaio calabrese forniva i binari per l'industria ferroviaria napoletana di Pietrarsa, dove venivano fabbricate anche motrici navali. La siderurgia calabrese fu soppressa dal governo unitario solo perché era situata nel Meridione; l'industria italiana doveva essere settentrionale. A Mongiana, quando fu chiusa, lavoravano 1.200 operai.
I piemontesi, quando centocinquant'anni fa invasero il nostro Meridione, fecero terra bruciata (in alcuni casi letteralmente) di tutto ciò che di buono avevamo. Saccheggiarono le nostre città, stuprarono le nostre donne, rasero al suolo e bruciarono tanti paesi, praticarono la tortura più spietata, fucilarono senza processo e senza condanna tanti contadini, incarcerarono donne e bambini, aprirono al Nord campi di concentramento e sterminio dove tormentarono e fecero morire tanti italiani del Sud squagliandoli poi nella calce viva, quelli del Nord s'inventarono leggi speciali per annientare noi meridionali, venne depredato tutto l'oro del Regno (le lire-oro napoletane costituivano i due terzi della ricchezza di tutta l'Italia messa insieme), vennero trafugate le opere d'arte dei ricolmi nostri musei.
L'impoverimento del Meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza, ma la ragione dell'Unità d'Italia.
I nostri padri briganti tentarono di reagire a questi immani soprusi e in alcuni momenti sembrò che potessero avere il sopravvento, ma così non fu. «Fummo calpestati e ci vendicammo», disse per tutti un brigante. I piemontesi schierarono contro di noi nel Sud i due terzi dell'intero esercito italiano. E fu una carneficina. Secondo alcuni vi furono circa un milione di morti fra i meridionali.
Ma la storia ufficiale ignora queste verità. I libri di storia che circolano nelle scuole di ogni ordine e grado tacciono. I documenti che ancora non sono stati distrutti vengono nascosti. I meridionali, man mano che ci si allontanava dai tempi in cui quei fatti accaddero, dimenticavano e rimuovevano. «Noi non sappiamo più chi fummo - scrive Aprile -. Ed è accaduto che i meridionali abbiano fatto propri i pregiudizi di cui erano oggetto. E che, per un processo d'inversione della colpa, la vittima si sia addossata quella del carnefice».
Qualcosa però sta cambiando negli ultimi anni. Vengono fatti tantissimi convegni dove si dibatte del Regno delle Due Sicilie, del Brigantaggio, degli eccidi patiti, della storia dimenticata. Sono nate case editrici specializzate su questi argomenti, come “Controcorrente” e “Editoriale Il Giglio”. Vengono pubblicati periodici come “L'Alfiere”, “Due Sicilie”, “Il Brigante”, “Nazione Napoletana”, “Nuovo Sud”. Sul Web fioriscono siti e blog che fanno informazione militante. Il silenzio-assenso del Meridione sta per finire. Forse siamo condannati all'ottimismo, scrive Aprile.
Le famiglie meridionali si sentono onorate se scoprono di aver avuto fra i loro antenati un brigante. Il termine “brigante” comincia ad assumere una connotazione positiva, come deve essere.
Pino Aprile è nato a Gioia del Colle, la patria del Sergente Romano, in provincia di Bari. Suo padre gli parlava del Romano come di un messia, non come di un delinquente. Era imprendibile, coraggioso, abile in campo aperto, ma più in azioni di commando, trasformò il brigantaggio in guerra civile e legittimista. I piemontesi occupanti dovettero impiegare migliaia fra soldati, carabinieri e guardie nazionali, per riuscire a isolare, catturare e uccidere Pasquale Domenico Romano, ex ufficiale borbonico.
Alessandro Romano, un discendente di Pasquale Domenico Romano, raccoglie e conserva cimeli appartenuti al famoso capo brigante legittimista e rinverdisce riattualizzandoli fatti ed episodi del Regno delle Due Sicilie. Ma più ancora vuole trovare le prove della memoria perduta, setacciando archivi comunali, notarili, ecclesiastici, biblioteche. Suo zio Salvatore gli aveva detto: «Quello che sta nei libri di storia so' bugie: i piemontesi non hanno unificato l'Italia, hanno allargato il Piemonte e a noi Romano c'hanno rovinato. Non è vero che Garibaldi fu accolto come liberatore. Non è vero che i Borbone erano tiranni. Non è vero che al Sud c'erano fame e miseria: dal Sud non se ne andava nessuno. Allora». E Alessandro sta scoprendo e comunicando agli altri che tutto quello che gli diceva zio Salvatore era vero. «Noi siamo per l'Italia una e indivisibile - conclude Alessandro -, è nata con i soldi che ci hanno preso e col nostro sangue. La federazione andava fatta prima, non dopo che ci hanno fregato tutto. Ma la verità la voglio. Bisogna riequilibrare la storia».
Altri vogliono accelerare i tempi. Antonio Ciano, di Gaeta, è il fondatore del “Partito del Sud”, che è presente in Lazio, Campania, Sicilia e vorrebbe allargarsi a tutto il Sud. Nelle ultime elezioni amministrative a Gaeta, città-simbolo della resistenza all'invasione piemontese, il Partito del Sud di Ciano e una lista civica vinsero. «Dopo centoquarantasette anni ci siamo ripresi la fortezza» proclamò Ciano. E per i centocinquant'anni dell'Unità d'Italia, la città di Gaeta ha avviato le procedure per chiedere ai Savoia il risarcimento dei danni dell'assedio del 1861: duecentosettanta milioni di euro. Oltre ai bombardamenti, quell'anno i piemontesi per riscaldarsi distrussero centomila ulivi. Di trecento frantoi non ne rimane uno. Ed ora, conclude Ciano, siamo per l'Italia unita. «L'Italia fu unita col sangue nostro, i soldi nostri rubati e portati al Nord. E mo' ce la teniamo: l'abbiamo pagata. Siamo repubblicani e unitaristi».
La mala unità ha diffuso i suoi malefici effetti per centocinquant'anni, dal 1861 ai giorni nostri. I nordisti italiani hanno sfruttato noi meridionali e continuano a farlo. Giustino Fortunato nel 1923 scriveva a Benedetto Croce: «Non disdico il mio unitarismo. Ho soltanto modificato il mio giudizio sugli industriali del Nord. Sono dei porci più porci dei maggiori porci nostri».
Con i soldi del Sud furono pagati i debiti del Nord. Fu demolita un'economia promettente e minata la sua rinascita con meccanismi di preclusione che funzionano ancora dopo centocinquant'anni. Il fascismo prima ed il berlusconismo oggi hanno portato avanti quest'impresa. I soldi dell'intero paese vengono dirottati in una sola parte del paese: da Roma in su. Solo lì si investe in strade, ferrovie, scuole, spese militari, porti, bonifiche. Dal 1860 al 1998 lo stato italiano ha speso in Campania duecento volte meno che in Lombardia, trecento volte meno che in Emilia, quattrocento volte meno che in Veneto. Nel 1996 si scoprì che l'Isveimer, banca nata per aiutare lo sviluppo del Sud, finanziava la Fininvest di Berlusconi, con quattrocentocinquanta miliardi.
Un esempio mastodontico della chiusura dell'Italia unita verso il Mezzogiorno è la costruzione della strada Salerno-Reggio Calabria, dai tempi biblici. La Cgil ha calcolato che, con l'attuale ritmo di sette chilometri all'anno, la Salerno-Reggio Calabria sarebbe stata completata nel 2040. Se tutto va bene. I gruppi che si aggiudicano i lavori sono sempre gli stessi, con successiva parcellizzazione in una miriade di subappalti, governati dalla 'ndrangheta, che è diventata la più moderna e internazionale delle mafie. Le cosche riscuotono, federate, il 3 per cento degl'importi. A chi paga non succede niente. Successivamente questi soldi tolti al Sud vengono investiti al Nord; né più né meno di come avviene con le banche e con Tremonti. Fermando la 'ndrangheta forse si fermerebbero per anni i lavori sull'autostrada. E questo non conviene a nessuno. Non converrebbe all'Anas, ai grandi gruppi nazionali, alla politica, agli stessi calabresi. C'è forse un interesse collettivo a non finire l'autostrada. La Salerno-Reggio Calabria, così letta, è uno strumento nazionale e locale di educazione alla minorità meridionale.
Che fare? Come ribellarsi all'oppressione dei nordisti che considerano noi meridionali “ottentotti”, “irochesi”, “beduini”, “peggio che Affrica”, “degenerati”, “ritardati”, “selvaggi”, “degradati”? Pino Aprile una soluzione la suggerisce. Tornare soli. Se si dovesse giungere alla separazione Nord-Sud, in Italia, i conti andrebbero fatti finalmente e dovrebbero contemplare i danni e i furti dell'invasione e quelli di centocinquant'anni di strabismo di stato alpino. Ma quanto varrebbe il Meridione, staccato dal resto d'Italia? Poco. Ma da soli, avremmo la possibilità di trasformare i nostri ritardi in occasioni di sviluppo. Non dovendo più “far media” con il reddito del Nord, diverremmo immediatamente il paese europeo ad avere maggiore diritto agl'incentivi economici per lo sviluppo; con un impagabile vantaggio aggiuntivo: che i soldi dell'Europa per il Sud, resterebbero al Sud. Solo dopo ci si potrebbe rimettere insieme, ma da pari.
Ma nell'attesa di questa radicale soluzione, l'emigrazione - scrive Aprile - può essere un giacimento di valori (anche economici), una ricchezza, se si riannodano i fili con chi, dei nostri, ha mostrato capacità in tanti campi, altrove. E se riusciamo a coinvolgerli in progetti che li riportino al Sud, con la quantità e varietà delle esperienze maturate.
In conclusione un'annotazione su di una cosa che non condivido: la larvata simpatia di Aprile per don Liborio Romano, l'uomo di Patù che consegnò il Regno delle Due Sicilie ai piemontesi. Per me don Liborio rimane un cattivo maestro risorgimentale insieme a Garibaldi, Cavour, Mazzini.
“Terroni” di Pino Aprile è un libro eccezionale da far leggere a tutti i Meridionali, anche con eventuali sunti alla Bignami per i più infingardi.
Rocco Biondi
Pino Aprile, Terroni. Tutto quello che é stato fatto perché gli Italiani del Sud diventassero "meridionali", Piemme, Milano 2010, pp. 306, € 17,50