Il programma di vita di Luce, la protagonista del romanzo di Rita Pani, potrebbe sintetizzarsi in queste sue due battute: «io non voglio arrivare da nessuna parte, io sto solo andando» e «non mi interessa fare carriera, non voglio sporcarmi, non voglio togliermi il piacere di avere ancora qualcosa in cui credere». Luce ha trentacinque anni, troppi per occupare terreni e rischiare di prendere manganellate, ma troppo pochi per smettere di farlo.
Luce è la presidente di un collettivo ambientalista; con l’aiuto di Simone ed altri ragazzi del collettivo, “estremisti” come lei e poco inclini a chinare il capo o svendersi, cerca di fare luce sull’operato della ditta Ecoplast, che ha donato una grossa somma al Comune per contribuire al rimboschimento di una vasta area industriale che aveva subito molti incendi; ma prima delle piante venivano interrati, di notte, barili blu contenenti «rifiuti tossici nocivi». Altri barili vennero sistemati, sempre di nascosto, sotto l’asfalto di un nuovo parcheggio. Luce si propone l’impossibile missione «di far dissotterrare quei barili al più presto».
Partiti e sindacati sapevano, ma tacevano; «bisogna mediare», dicono loro. E questo per Luce era merda: «prenderò tutta la merda che avranno sparso in giro, gliela lancerò addosso e poi dirò basta a tutto questo. Sono schifata».
Ma nel romanzo non si parla solo di politica, di sociale, di ecologia. Anzi si parla di più di sensazioni, di emozioni, di sentimenti, di passioni, di scopate.
Rita Pani riesce a padroneggiare molto bene il linguaggio, adattandolo egregiamente ai personaggi e alle situazioni. Sentite come si esprime Simone: «Luce, io ti voglio bene, e mi piaci pure, e forse ti scoperei anche se fossi sicuro che tu non mi spezzeresti le gambe a calci, all’istante, cioè, voglio dire, io non ho mai pensato a te come… Insomma non so se mi spiego, tu sei Lucina, il Comandante, la mia droga, la mia eroina, ma negativo, mai potrei… Cazzo! Io ti voglio bene, finiremo i nostri giorni ubriachi a Parigi, scrittori illuminati. Hai capito?».
Luce è molto facile al pianto. E talvolta la sua storia fa inumidire gli occhi anche noi lettori. A me è successo. In alcuni momenti un gruppo mi ha preso alla gola.
Il romanzo è la storia del disincanto di Luce. Ma anche se rinuncerà alla lotta, mai rinuncerà ai suoi ideali. «Mi mancavano i tempi durante i quali credevo davvero che fosse possibile cambiare il mondo, o per lo meno renderlo un po’ più vivibile».
Pino Scaccia, nella postfazione al libro, classifica Luce fra i buoni con la passione, che sono l’ultimo patrimonio per salvare il mondo.
Ed io sono sicuro che prima o poi Luce ritornerà dall’Islanda, dove si è rifugiata, per continuare a combattere fra di noi. Magari facendo solo resistenza infinita con un blog, come fa l’autrice Rita Pani. E non è poco.
Rita Pani, Luce, con una “Nota dell’Editore”, postfazione di Pino Scaccia, Gammarò Editori, Sestri Levante, 2007, pp. 198
22 agosto 2007
12 agosto 2007
Storia del Brigantaggio dopo l’Unità di Franco Molfese
Franco Molfese, nelle considerazioni conclusive del suo monumentale e tuttora fondamentale libro sul brigantaggio dopo l’unità d’Italia, si chiede se era possibile evitare l’immane sperpero di vite umane e di ricchezze, provocati dal brigantaggio contadino e dalla repressione statale. Se esisteva nel Sud la possibilità di una diversa soluzione dei rapporti tra classe borghese-liberale e masse contadine. Consapevole comunque che una risposta a tali domande appare sul terreno storiografico sempre azzardata, perché la storia non si scrive con i “se” del senno di poi. Tuttavia, essendo implicito nei fatti storici anche il possibile che non si è realizzato, un ripensamento del genere arricchisce certamente la comprensione dell’accaduto.
La risposta del Molfese è che il grande dramma del brigantaggio avrebbe potuto essere, se non evitato, certamente di molto ridotto nel tempo e nell’intensità da una differente politica dei governi unitari succedutesi nel decennio 1860-1870, guidati da Cavour, Ricasoli, Rattazzi, Farini, Minghetti, La Marmora, Menabrea, Lanza. Evitare completamente il brigantaggio era impossibile, dal momento che esso era stato partorito spontaneamente dalla generale crisi meridionale ad opera di fattori economico-sociali, strutturali e contingenti.
Ma se la politica dei moderati al governo (piemontesi e fuoriusciti napoletani filo-cavouriani) avesse accolto le istanze dei democratici, nelle loro aspirazioni fondamentali: impieghi, sviluppo economico, sicurezza pubblica, il brigantaggio sarebbe stato ridotto e la costruzione dello Stato unitario avrebbe poggiato nel Sud su fondamenta più solide.
Ma così non fu. La Destra moderata, minoritaria nel Sud, fece ricorso alla dittatura militare per reprimere l’offensiva del grande brigantaggio contadino. I salariati-briganti aspiravano al pane, alla libertà, anche alle vendette come forma di rozza giustizia, dibattendosi nelle strette del carovita, della disoccupazione, dei redditi insufficienti. La risposta governativa fu una repressione armata in funzione anti-contadina ed anti-popolare. I contadini del Sud combatterono per anni, contro forze preponderanti, una lotta senza speranza, condannata all’insuccesso. Ma posti di fronte all’alternativa di vivere asserviti in ginocchio o di morire in piedi, scelsero la seconda.
Il libro del Molfese parte dalle prime ondate della guerriglia contadina sviluppatasi dall’autunno del 1860 a tutto l’inverno del 1861, quando agli spontanei movimenti contadini comincia a soprapporsi la reazione borbonico-clericale imprimendo loro un orientamento politico. Il brigantaggio consegue rapidi successi nel Beneventano, nel Molise, in Terra di Lavoro, negli Abruzzi. I moti contadini si intensificarono e si radicalizzarono successivamente in Calabria, Basilicata, Puglia.
Lo scioglimento dell’esercito meridionale garibaldino, con la conseguente frustrazione per le speranze deluse, infoltirono sia di uomini che di rivendicazione le bande brigantesche.
La fine del Regno borbonico delle Due Sicilie, con la resa finale di Gaeta, Messina, Civitella del Tronto e la fuga di Francesco II a Roma presso la corte pontificia, fu un altro elemento che si intersecò con il brigantaggio. I Borboni in qualche modo tentarono di sfruttarlo ai fini di un improbabile tentativo di restaurazione del Regno di Napoli.
Intanto bande armate si andavano costituendo dappertutto, capitanate da valenti e coraggiosi capibanda. Il Molfese, nell’appendice terza del suo libro, pubblica un elenco delle bande brigantesche attive fra il 1861 e il 1870 e ne individua ben 388 (trecentottantaotto), dalle piccole, composte di pochi individui (5-15), fino alle grandi, che raggiunsero e superarono talvolta i 100 uomini, con punte fino a 300-400. Fra le grandi bande, Molfese cita quelle di Giovanni Piccioni, Giacomo Giorgi, Berardo Stramenga nell’Abruzzo Teramano ed Aquilano; di Pasquale Mancini e Salvatore Scenna, Domenico Valerio [Cannone] e Policarpo Romagnoli, Giovanni Di Sciascio, Domenico Saraceni (Pizzolungo) nell’Abruzzo Chietino; di Domenico Coja (Centrillo), Luigi Alonzi (Chiavone), Cedrone, Capoccia, Alessandro Pace, Francesco ed Evangelista Guerra, Domenico Fuoco, Luigi Andreozzi, Tristany nella Terra di Lavoro, Sorano e Stato Pontificio; di Nunzio di Paolo, Giuseppe Schiavone nel Molise, Sannio e Beneventano; di Cipriano e Giona La Gala, Agostino Sacchitiello nell’Irpinia e Salernitano; di Carmine Donatelli (Crocco), Giuseppe Nicola Summa (Ninco-Nanco), Giovanni Fortunato (Coppa), Paolo Serravalle, Pasquale Cavalcante, Donato Tortora, Angelo Antonio Masini, Giuseppe Caruso in Basilicata; Michele Caruso, Angelo Maria Villani (lo Zambro) in Capitanata; Sergente Romano in Terra di Bari e Terra d’Otranto; Mittica in Calabria; Vincenzo Barone in Provincia di Napoli
Sproporzionato appare il numero di quasi 120.000 soldati impegnati dallo stato piemontese nell’opera di repressione, ma questo testimonia come il brigantaggio in quegli anni sia stato un fenomeno di massa, che andava ben al di là dei briganti alla macchia. Questa forza imponente, che rappresentava quasi i due quinti dell’intero esercito italiano, non riusciva, però, a venire a capo della ostinata guerriglia contadina condotta da un numero infinitamente minore ed estremamente fluttuante di armati.
Nel dicembre 1862, dal parlamento torinese, venne istituita la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul Brigantaggio (CPIB), con l’obiettivo di indagare le cause del brigantaggio, studiare l’oggettiva situazione sul campo e proporre i mezzi per sconfiggerlo. Della Commissione facevano parte due parlamentari della sinistra democratica, un indipendente di sinistra, quattro moderati e governativi, due generali dell’esercito (ex garibaldini). Le Relazioni conclusive della Commissione d’inchiesta vennero presentate alla Camera dei deputati nel maggio 1863.
Il 15 agosto 1863 venne promulgata “la legge Pica” che dava ai tribunali militari la competenza a giudicare i briganti e i loro complici e comminava la fucilazione a chi avesse opposto resistenza a mano armata. Ebbe così inizio una legislazione eccezionale che durò fino al 31 dicembre 1865. Quanti furono i cosiddetti briganti fucilati o uccisi? Il numero preciso non lo si saprà mai, ma furono tantissimi. Molfese, dal secondo bimestre del 1861 e tutto il 1865, ne documenta 5.212. Ma vi è chi ha scritto che i guerriglieri caduti in combattimento in quel decennio furono 155.620 e i fucilati o morti in carcere 120.327. Un massacro. L’olocausto del Sud.
La Storia del Brigantaggio del Molfese è un libro che richiede grande fatica nella lettura; ma chi vuol capire cosa veramente è accaduto in Italia nel decennio 1860-1870, non può fare a meno di leggerlo. Sono riportati e sintetizzati i numerosi dibattiti che si tennero in quegli anni nel parlamento italiano sulla questione del brigantaggio, sono spiegate le ragioni per le quali agli spontanei movimenti contadini andarono pian piano a sovrapporsi le ragioni dei borbonici e degli ambienti clericali, sono riportati dettagliatamente i moltissimi episodi della guerriglia contadina che i Briganti combatterono in tutto il Sud.
Il libro fu pubblicato dalla Feltrinelli nel 1964. Raffaele Nigro, nel suo recente libro Giustiziateli sul campo, scrive che quello del Molfese è un saggio destinato a far luce su alcuni aspetti mai chiariti del Risorgimento italiano, e aggiunge: «Un progetto di rivisitazione della storia d’Italia operata da Giangiacomo Feltrinelli e tendente a dimostrare come l’unità fosse nata a scapito dei contadini meridionali».
Noi abbiamo letto la ristampa a cura delle edizioni Nuovo Pensiero Meridiano del 1983, stampata a Madrid.
Franco Molfese, Storia del Brigantaggio dopo l’Unità, Nuovo Pensiero Meridiano, Madrid 1983, pp. 484
La risposta del Molfese è che il grande dramma del brigantaggio avrebbe potuto essere, se non evitato, certamente di molto ridotto nel tempo e nell’intensità da una differente politica dei governi unitari succedutesi nel decennio 1860-1870, guidati da Cavour, Ricasoli, Rattazzi, Farini, Minghetti, La Marmora, Menabrea, Lanza. Evitare completamente il brigantaggio era impossibile, dal momento che esso era stato partorito spontaneamente dalla generale crisi meridionale ad opera di fattori economico-sociali, strutturali e contingenti.
Ma se la politica dei moderati al governo (piemontesi e fuoriusciti napoletani filo-cavouriani) avesse accolto le istanze dei democratici, nelle loro aspirazioni fondamentali: impieghi, sviluppo economico, sicurezza pubblica, il brigantaggio sarebbe stato ridotto e la costruzione dello Stato unitario avrebbe poggiato nel Sud su fondamenta più solide.
Ma così non fu. La Destra moderata, minoritaria nel Sud, fece ricorso alla dittatura militare per reprimere l’offensiva del grande brigantaggio contadino. I salariati-briganti aspiravano al pane, alla libertà, anche alle vendette come forma di rozza giustizia, dibattendosi nelle strette del carovita, della disoccupazione, dei redditi insufficienti. La risposta governativa fu una repressione armata in funzione anti-contadina ed anti-popolare. I contadini del Sud combatterono per anni, contro forze preponderanti, una lotta senza speranza, condannata all’insuccesso. Ma posti di fronte all’alternativa di vivere asserviti in ginocchio o di morire in piedi, scelsero la seconda.
Il libro del Molfese parte dalle prime ondate della guerriglia contadina sviluppatasi dall’autunno del 1860 a tutto l’inverno del 1861, quando agli spontanei movimenti contadini comincia a soprapporsi la reazione borbonico-clericale imprimendo loro un orientamento politico. Il brigantaggio consegue rapidi successi nel Beneventano, nel Molise, in Terra di Lavoro, negli Abruzzi. I moti contadini si intensificarono e si radicalizzarono successivamente in Calabria, Basilicata, Puglia.
Lo scioglimento dell’esercito meridionale garibaldino, con la conseguente frustrazione per le speranze deluse, infoltirono sia di uomini che di rivendicazione le bande brigantesche.
La fine del Regno borbonico delle Due Sicilie, con la resa finale di Gaeta, Messina, Civitella del Tronto e la fuga di Francesco II a Roma presso la corte pontificia, fu un altro elemento che si intersecò con il brigantaggio. I Borboni in qualche modo tentarono di sfruttarlo ai fini di un improbabile tentativo di restaurazione del Regno di Napoli.
Intanto bande armate si andavano costituendo dappertutto, capitanate da valenti e coraggiosi capibanda. Il Molfese, nell’appendice terza del suo libro, pubblica un elenco delle bande brigantesche attive fra il 1861 e il 1870 e ne individua ben 388 (trecentottantaotto), dalle piccole, composte di pochi individui (5-15), fino alle grandi, che raggiunsero e superarono talvolta i 100 uomini, con punte fino a 300-400. Fra le grandi bande, Molfese cita quelle di Giovanni Piccioni, Giacomo Giorgi, Berardo Stramenga nell’Abruzzo Teramano ed Aquilano; di Pasquale Mancini e Salvatore Scenna, Domenico Valerio [Cannone] e Policarpo Romagnoli, Giovanni Di Sciascio, Domenico Saraceni (Pizzolungo) nell’Abruzzo Chietino; di Domenico Coja (Centrillo), Luigi Alonzi (Chiavone), Cedrone, Capoccia, Alessandro Pace, Francesco ed Evangelista Guerra, Domenico Fuoco, Luigi Andreozzi, Tristany nella Terra di Lavoro, Sorano e Stato Pontificio; di Nunzio di Paolo, Giuseppe Schiavone nel Molise, Sannio e Beneventano; di Cipriano e Giona La Gala, Agostino Sacchitiello nell’Irpinia e Salernitano; di Carmine Donatelli (Crocco), Giuseppe Nicola Summa (Ninco-Nanco), Giovanni Fortunato (Coppa), Paolo Serravalle, Pasquale Cavalcante, Donato Tortora, Angelo Antonio Masini, Giuseppe Caruso in Basilicata; Michele Caruso, Angelo Maria Villani (lo Zambro) in Capitanata; Sergente Romano in Terra di Bari e Terra d’Otranto; Mittica in Calabria; Vincenzo Barone in Provincia di Napoli
Sproporzionato appare il numero di quasi 120.000 soldati impegnati dallo stato piemontese nell’opera di repressione, ma questo testimonia come il brigantaggio in quegli anni sia stato un fenomeno di massa, che andava ben al di là dei briganti alla macchia. Questa forza imponente, che rappresentava quasi i due quinti dell’intero esercito italiano, non riusciva, però, a venire a capo della ostinata guerriglia contadina condotta da un numero infinitamente minore ed estremamente fluttuante di armati.
Nel dicembre 1862, dal parlamento torinese, venne istituita la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul Brigantaggio (CPIB), con l’obiettivo di indagare le cause del brigantaggio, studiare l’oggettiva situazione sul campo e proporre i mezzi per sconfiggerlo. Della Commissione facevano parte due parlamentari della sinistra democratica, un indipendente di sinistra, quattro moderati e governativi, due generali dell’esercito (ex garibaldini). Le Relazioni conclusive della Commissione d’inchiesta vennero presentate alla Camera dei deputati nel maggio 1863.
Il 15 agosto 1863 venne promulgata “la legge Pica” che dava ai tribunali militari la competenza a giudicare i briganti e i loro complici e comminava la fucilazione a chi avesse opposto resistenza a mano armata. Ebbe così inizio una legislazione eccezionale che durò fino al 31 dicembre 1865. Quanti furono i cosiddetti briganti fucilati o uccisi? Il numero preciso non lo si saprà mai, ma furono tantissimi. Molfese, dal secondo bimestre del 1861 e tutto il 1865, ne documenta 5.212. Ma vi è chi ha scritto che i guerriglieri caduti in combattimento in quel decennio furono 155.620 e i fucilati o morti in carcere 120.327. Un massacro. L’olocausto del Sud.
La Storia del Brigantaggio del Molfese è un libro che richiede grande fatica nella lettura; ma chi vuol capire cosa veramente è accaduto in Italia nel decennio 1860-1870, non può fare a meno di leggerlo. Sono riportati e sintetizzati i numerosi dibattiti che si tennero in quegli anni nel parlamento italiano sulla questione del brigantaggio, sono spiegate le ragioni per le quali agli spontanei movimenti contadini andarono pian piano a sovrapporsi le ragioni dei borbonici e degli ambienti clericali, sono riportati dettagliatamente i moltissimi episodi della guerriglia contadina che i Briganti combatterono in tutto il Sud.
Il libro fu pubblicato dalla Feltrinelli nel 1964. Raffaele Nigro, nel suo recente libro Giustiziateli sul campo, scrive che quello del Molfese è un saggio destinato a far luce su alcuni aspetti mai chiariti del Risorgimento italiano, e aggiunge: «Un progetto di rivisitazione della storia d’Italia operata da Giangiacomo Feltrinelli e tendente a dimostrare come l’unità fosse nata a scapito dei contadini meridionali».
Noi abbiamo letto la ristampa a cura delle edizioni Nuovo Pensiero Meridiano del 1983, stampata a Madrid.
Franco Molfese, Storia del Brigantaggio dopo l’Unità, Nuovo Pensiero Meridiano, Madrid 1983, pp. 484
5 agosto 2007
Le pere di Mele - Parlamentari a puttane
Che l’onorevole (?) Mele vada a puttane o si spari delle pere o sniffi a me non frega proprio niente. Quello che mi indigna invece è che individui come lui, o amici del suo partito, ci vengano a fare il predicozzo morale sul valore sacro della famiglia, sulla droga che uccide e che bisogna sfuggire come lebbra, sul rispetto della donne come persone (e le puttane non sono persone?). Quello che mi indigna è che persone come lui magari raccolgano firme per abolire le legge sul divorzio e sull’aborto. L’avete notato che i massimi capi dei partiti di destra, che a parole difendono la famiglia, sono tutti divorziati? Sono tutti, non solo i capi, sepolcri imbiancati di fuori ma pieni di vermi schifosi dentro, di evangelica memoria.
E che dire della cazzata che ha sparato Cesa, capo del partito di Mele, quando ha proposto che ai parlamentari bisognerebbe dare una indennità speciale per portarsi le mogli a Roma? Ovviamente bisognerebbe portarsi a Roma anche figli, padri, madri, suoceri e suocere, a carico. E chi ci garantisce che i deputati poi non userebbero quei soldi per andare a puttane? Io invece proporrei, eccetto che per i deputati, una indennità speciale per tutti quelli che la moglie non ce l’hanno o hanno una moglie che non gliela dà più; parte del “tesoretto” potrebbe essere usato per venire incontro agli scapoli di diritto o di fatto per aiutarli a superare lo stress da mancanza; anche una puttana potrebbe aiutare. Senza contare che anche queste lavoratrici ne trarrebbero vantaggio.
E che dire ancora dei test antidroga per gli onorevoli? L’altro giorno, in piazza Montecitorio, solo 120 parlamentari hanno fatto il test. Cosa significa: che gli altri 825, tra deputati e senatori, sono tutti drogati? Ma è stata una emerita buffonata. E chi è così fesso, che dopo essersi fatto va a sottoporsi ad un test volontario? Bisognerebbe fare i test a sorpresa, come per i ciclisti ed i calciatori. Vi immaginate voi, dopo una di quelle invereconde sceneggiate che vengono fatte in parlamento, che un medico si avvicini ad un onorevole o onorevolessa e chieda: mi scusi, mi faccia un po’ di pipì. Allora sì che sarebbe una cosa seria. O no.
Il parlamento è quasi tutto pieno di imbroglioni disonesti. Quelli dell’Unione dei Democratici Cristiani (UDC) sapevano molto bene, quando hanno piazzato Mele nella lista in modo utile per essere eletto, che quest’ultimo solamente qualche giorno prima era uscito dalla galera per aver riscosso tangenti in appalti pubblici e per assunzioni e che quelle tangenti se le andava a giocare al casinò. Non dovrebbe dimettersi da parlamentare solo Mele, ma tutto l’UDC dovrebbe essere cacciato dal Parlamento. Per passare poi agli altri partiti. Si correrebbe il rischio che il Parlamento rimarrebbe svuotato. Da adibire solo alle visite guidate.
E che dire della cazzata che ha sparato Cesa, capo del partito di Mele, quando ha proposto che ai parlamentari bisognerebbe dare una indennità speciale per portarsi le mogli a Roma? Ovviamente bisognerebbe portarsi a Roma anche figli, padri, madri, suoceri e suocere, a carico. E chi ci garantisce che i deputati poi non userebbero quei soldi per andare a puttane? Io invece proporrei, eccetto che per i deputati, una indennità speciale per tutti quelli che la moglie non ce l’hanno o hanno una moglie che non gliela dà più; parte del “tesoretto” potrebbe essere usato per venire incontro agli scapoli di diritto o di fatto per aiutarli a superare lo stress da mancanza; anche una puttana potrebbe aiutare. Senza contare che anche queste lavoratrici ne trarrebbero vantaggio.
E che dire ancora dei test antidroga per gli onorevoli? L’altro giorno, in piazza Montecitorio, solo 120 parlamentari hanno fatto il test. Cosa significa: che gli altri 825, tra deputati e senatori, sono tutti drogati? Ma è stata una emerita buffonata. E chi è così fesso, che dopo essersi fatto va a sottoporsi ad un test volontario? Bisognerebbe fare i test a sorpresa, come per i ciclisti ed i calciatori. Vi immaginate voi, dopo una di quelle invereconde sceneggiate che vengono fatte in parlamento, che un medico si avvicini ad un onorevole o onorevolessa e chieda: mi scusi, mi faccia un po’ di pipì. Allora sì che sarebbe una cosa seria. O no.
Il parlamento è quasi tutto pieno di imbroglioni disonesti. Quelli dell’Unione dei Democratici Cristiani (UDC) sapevano molto bene, quando hanno piazzato Mele nella lista in modo utile per essere eletto, che quest’ultimo solamente qualche giorno prima era uscito dalla galera per aver riscosso tangenti in appalti pubblici e per assunzioni e che quelle tangenti se le andava a giocare al casinò. Non dovrebbe dimettersi da parlamentare solo Mele, ma tutto l’UDC dovrebbe essere cacciato dal Parlamento. Per passare poi agli altri partiti. Si correrebbe il rischio che il Parlamento rimarrebbe svuotato. Da adibire solo alle visite guidate.
2 agosto 2007
Ingmar Bergman
Ingmar Bergman è, per me, uno dei più grandi, se non il più grande, fra i registi di tutti i tempi. Mi sono formato sui suoi film. Fino alla fine dei miei anni universitari a Roma, quando poteva e me ne se presentava l’occasione, vedevo e rivedevo i suoi film. Il mio interesse per il cinema è maturato con lui. Lo sentivo vicino a me e mia guida nella confusa ricerca della verità e del senso della vita. Proveniente, come lui, da un ambiente in cui il sacro ed il divino mi erano stati imposti come verità obbligatorie, cercavo di svincolarmi per approdare in un mondo solamente umano, non meno problematico di quello divino. Il settimo sigillo (1956) è stato per me come una bibbia cinematografica su cui meditare. Il dio per il quale combattevamo nelle nostre crociate muore dentro di noi di fronte alla brutalità e violenza del mondo. Il cavaliere gioca a scacchi con la morte, nella illusoria speranza di indovinare una mossa che la sconfigga. Solo l’incontro con una spensierata famiglia di saltimbanchi gli farà ritrovare una qualche serenità.
Per Bergman dio è morto, e noi dobbiamo rassegnarci a sopravvivere senza di lui.
Il cinema di Bergman non è commerciale, non ha mai riempiti i botteghini, ma ha formato generazioni di cineasti e di liberi ricercatori della verità. Se Bergman ha girato tanti film significa che comunque aveva un mercato.
Ora che Bergman all’età di 89 anni se ne è andato, ci ha però lasciati tanti film su cui riflettere e godere spiritualmente. Io andrò alla ricerca di tutti i suoi film ancora rintracciabili, per rivedermeli. Sorrisi di una notte d’estate (1955), Il posto delle fragole (1957), Il volto (1958), La fontana della vergine (1960), Come in uno specchio (1960), Luci d’inverno (1963), Il silenzio (1963), Persona (1966), Passione (1969), Sussurri e grida (1973), Fanny e Alexander (1982), sono pietre miliari della storia dell’arte cinematografica.
Ingmar Bergman - Wikipedia
Per Bergman dio è morto, e noi dobbiamo rassegnarci a sopravvivere senza di lui.
Il cinema di Bergman non è commerciale, non ha mai riempiti i botteghini, ma ha formato generazioni di cineasti e di liberi ricercatori della verità. Se Bergman ha girato tanti film significa che comunque aveva un mercato.
Ora che Bergman all’età di 89 anni se ne è andato, ci ha però lasciati tanti film su cui riflettere e godere spiritualmente. Io andrò alla ricerca di tutti i suoi film ancora rintracciabili, per rivedermeli. Sorrisi di una notte d’estate (1955), Il posto delle fragole (1957), Il volto (1958), La fontana della vergine (1960), Come in uno specchio (1960), Luci d’inverno (1963), Il silenzio (1963), Persona (1966), Passione (1969), Sussurri e grida (1973), Fanny e Alexander (1982), sono pietre miliari della storia dell’arte cinematografica.
Ingmar Bergman - Wikipedia